54GMCS: La memoria comune sul sentiero della Storia

mercoledì 20 Maggio 2020
Un articolo di: Massimo Giraldi, Sergio Perugini

Sam Mendes dirige “1917”, kolossal bellico sulla Grande guerra in un’operazione visiva immersiva, uno sguardo disturbante ed educativo. Per non dimenticare

Ultimo titolo del ciclo proposto dalla Commissione nazionale valutazione film CEI per approfondire il Messaggio di papa Francesco, “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria” (Es 10,2). La vita si fa storia. Parliamo di “1917” di Sam Mendes, vincitore di tre premi Oscar tecnici e due Golden Globe (miglior film drammatico e regia). Mendes ci conduce in un suggestivo racconto della Grande guerra attraverso la prospettiva di due giovani soldati britannici in trincea in Francia. Il racconto di una pagina di storia recente, appunto il conflitto mondiale, topos più volto proposto nella storia del cinema, utilizzando una storia “piccola” ma dal forte impatto visivo, con movimenti di macchina avvolgenti e persino immersivi, tessendo in generale un racconto senza tempo di forte attualità.

Echi familiari della guerra
È una storia di fantasia. Così chiarisce subito nelle note di regia Sam Mendes, aggiungendo però: “nella quale situazioni e dettagli rimandano alle storie vere che mio nonno, Alfred H. Mendes, ha vissuto in prima persona o che ha sentito raccontare dai suoi commilitoni”.La vicenda: Francia 1917, la Prima guerra mondiale è in pieno svolgimento; i caporali William Schofield (George MacKay) e Tom Blake (Dean-Charles Chapman, il Tommen Baratheon in “Game of Thrones”) dell’esercito britannico ricevono l’ordine di individuare un loro battaglione appostato nel bosco di Croisilles in Francia. Lì devono consegnare al colonnello MacKenzie (Benedict Cumberbatch) una lettera da parte del generale Erinmore (Colin Firth) che gli permetterà di salvare da morte sicura centinaia di soldati (tra cui anche il fratello di uno dei due ragazzi) per mano dei tedeschi.

Custodire la memoria comune
Una prova maiuscola per Mendes, regista classe 1965 e originario di Reading in Inghilterra, vincitore da esordiente già di un Oscar per la miglior regia nel 2000 con “America Beauty” (il film ha ottenuto 5 statuette in tutto); negli anni poi Mendes si è costruito con quasi dieci titoli all’attivo – tra cui “Era mio padre”, “Revolutionary Road”, “American Life”, “Skyfall” e “Spectre” – un profilo di autore solido, elegante ed eclettico, con un grande seguito da parte di critica e pubblico. E dopo i ripetuti colpi di adrenalina targata 007, James Bond, Mendes stupisce ancora confrontandosi con le pagine della Storia del Novecento – a dire il vero nella sua filmografia c’è il non troppo riuscito “Jarhead” sulla Prima guerra del Golfo – raccontando la vita di trincea nel cuore dell’Europa. Sceglie come prospettiva lo sguardo di due giovani dal volto ancora poco adulto, non troppo intaccato dai feroci segni della guerra. A loro affida lo sguardo che ci conduce nelle pieghe dell’orrore, a contatto con il logorante conflitto stanziale. Nella morsa di due fronti opposti, questi due ragazzi sperimentano lo spaesamento di un conflitto più grande di loro, del mondo che hanno abitato e conosciuto. Un mondo che va sbiadendo di fronte ad atmosfere fosche, buie, dove all’orizzonte rimangono solo campi desolati e sofferenze umane strazianti.
Blake e Schofield affrontano una missione impossibile, nella quale il loro vero nemico è il tempo, che scorre inesorabile e dietro il quale c’è la salvezza oppure la tragedia. La necessità di creare una crescente tensione emotiva ha spinto il regista a immaginare questo viaggio estremo come il confronto con una situazione senza via d’uscita. E il percorso nella “terra di nessuno” diventa come la perdita di senso in un terrificante labirinto in cui sembra mancare uno scampolo di luce.
Nel far questo, Mendes promuove a protagonista il piano sequenza, che permette allo spettatore di rimanere continuamente accanto ai due soldati, sempre e comunque, secondo una logica visivo-immersiva. Ne esce così uno stile di racconto affascinante e insieme claustrofobico, visionario, richiamando a tratti alcune intuizioni di Christopher Nolan in “Dunkirk” (2017). A ben vedere, in “1917” sembrano affiorare rimandi ad altri grandi classici del cinema bellico come “Gli anni spezzati” (1981) di Peter Weirm, “Uomini contro” (1970) di Francesco Rosi e “Orizzonti di gloria” (1957) di Stanley Kubrick.
Mettendo insieme tutti questi elementi, narrativi e visivi, l’impresa di Sam Mendes risulta di certo riuscita e memorabile. Unica nota da eccepire, forse, se proprio si vuole trovare un’imperfezione al racconto, è il fatto che lo splendore della messa in scena sembra quasi dominare, o meglio, far passare in secondo piano l’atroce sofferenza patita dai due protagonisti e dalla comunità umana coinvolta nel conflitto. Nel complesso il film è di ottimo di livello, un lavoro di grande qualità e pregio, che si giova anche della finezza recitativa dei veterani Firth e Cumberbatch.
Un’opera che la Commissione nazionale valutazione film CEI ha scelto proprio per riannodare i fili della Storia, per mettere a tema soprattutto tra le giovani generazioni come le guerre siano sono generatrici di sofferenze e atrocità. Le guerre non costituiscono mai la soluzione, bensì sono unicamente occasioni di smarrimento comune. Un film che vanta una cura formale pregiata ma anche una densità tematica di forte attualità. Dal punto di vista pastorale, “1917” è da valutare come complesso, problematico e da affidare a dibattiti e occasioni di riflessione.

1917

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