Custodire la memoria comune. Il cinema che racconta la Shoah e apre sguardi educativi

mercoledì 27 Gennaio 2021
Un articolo di: Sergio Perugini

In occasione della Giornata della memoria, che ricorre a livello internazionale il 27 gennaio, ogni anno la Commissione nazionale valutazione film CEI propone una serie di film per ricordare le vittime della Shoah e nel contempo per riaffermare il valore della memoria, gli snodi incancellabili della Storia; un impegno soprattutto in chiave educativa. Per non dimenticare.

“Jojo Rabbit” (2020)
Film rivelazione della stagione 2019-2020, premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, “Jojo Rabbit” è una commedia drammatica scritta, diretta e interpretata da Taika Waititi. È il racconto dell’orrore della Seconda guerra mondiale e soprattutto del dramma della Shoah attraverso il percorso di formazione del piccolo Jojo Rabbit (Roman Griffin Davis), che da fanatico del regime nazista scopre le falsità e atrocità commesse dal Terzo Reich grazie a un incontro che salva, quello con la giovane ebrea Elsa (Thomasin McKenzie). Dal romanzo di Christine Leunens, il film di Taika Waititi ci ricorda come grazie alla tenerezza – tanto della madre Rosie (Scarlett Johansson) quanto dell’adolescente Elsa – Jojo impari a guardare il mondo fuori con le lenti giuste, a cogliere le atrocità e le storture del suo presente, ma anche a individuare un bagliore di speranza nel mondo che cade a pezzi. Un cambiamento che il regista rimarca passando dai toni umoristici e sarcastici iniziali, scelti per descrivere il folle contesto del Terzo Reich, alle note drammatiche, senza filtri, con cui squaderna la realtà davanti a Jojo, con cui rivela i crimini abominevoli. Lo spettatore rimane spiazzato dal mix di storia e stile narrativo, dall’umorismo di matrice nera, ma piano piano le risate muoiono in gola lasciando il posto alla commozione e a evidenti guadagni educativi. E forse questo stile giocato sull’umorismo può rappresentare una valida chiave comunicativa-divulgativa per i giovani sui temi della memoria, della guerra e della Shoah, guardando ai classici “La vita è bella” (1997) di Roberto Benigni o “Train de vie” (1998) di Radu Mihăileanu. Dal punto di vista pastorale il film è consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

“La vita davanti a sé” (2020)
“La vita davanti a sé” (“The Life Ahead”) di Edoardo Ponti, dal romanzo di Romain Gary, ci consegna una storia di sofferenza, di solitudine, ai margini della vita, dove bagliori di speranza si faticano a vedere; una speranza però che ha la forza di affiorare grazie all’incontro di un’umanità solidale. Targato Netflix, “La vita davanti a sé” è uno dei titoli di punta della stagione grazie alla struggente interpretazione di Sophia Loren. Il film mette a tema elementi centrali del nostro vivere sociale, a cominciare dal dovere-bisogno di accoglienza, tolleranza e solidarietà, come pure il valore della memoria, richiamando le sofferenze della Shoah. La regia di Ponti si dimostra valida e presente, abile soprattutto nel capire di dover concedere spazio alla recitazione naturale, avvolgente, della Loren con il giovane Ibrahima Gueye (di grande espressività!): insieme riempiono lo schermo con giochi di sguardi e parole appena accennate. I due descrivono le sfumature del dolore, della solitudine più bruciante, che progressivamente sovvertono nei toni più caldi della tenerezza. E lei, la Loren, irradia di luce tutto il racconto, senza però fagocitarlo; da grande attrice, fa un passo indietro e si mette al servizio della storia, in sottrazione, regalando un personaggio di rara bellezza. “La vita davanti a sé” è un’opera convincente per la delicatezza con cui mostra le periferie odierne, un’umanità in affanno resiliente e solidale, riannodando anche i fili della Storia. Un film che direziona lo sguardo tra il valore della memoria e la fiducia nel domani, puntellando il racconto di raccordi poetici. Dal punto di vista pastorale il film è consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

“La guerra è finita” (2020)
Un “Braccialetti rossi” del Dopoguerra. Così può essere definita la miniserie Rai-Palomar “La guerra è finita”, quattro puntate diretta da Michele Soavi e disponibile su RaiPlay. IL racconto trova la sua originalità decidendo di approfondire il periodo immediatamente successivo alla Guerra, i giorni dopo la Liberazione in Italia; e chiave altrettanto originale è la condivisione dell’elaborazione dei traumi della Shoah seguendo il percorso di ripresa, di riscatto, di bambini ebrei sopravvissuti: feriti nel corpo, mutilati nell’animo, ma pur sempre bambini capaci di riaffermare il bisogno di vita. Autore del soggetto e della sceneggiatura della miniserie è Sandro Petraglia, che si ricollega alle memorie di Primo Levi ma anche dall’esperienza di Selvino, comune della bergamasca dove nel Dopoguerra è stata creata una casa dei bambini ebrei sopravvissuti. “La guerra è finita” è una miniserie che punta al racconto della Storia, a fare memoria, seguendo un taglio divulgativo-educativo; un racconto di bambini e giovani del recente passato, pensato per altri giovani, quelli di oggi, bersagliati spesso nelle praterie social da pericolosi tentativi di riscrittura della Storia e di banalizzazione del Male. Come ha ricordato papa Francesco nella visita alla Sinagoga di Roma nel 2016: “La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace”. Dal punto di vista pastorale la miniserie è consigliabile, problematica e adatta per dibattiti.

“Un sacchetto di biglie” (2018)
Diretto dal regista Christian Duguay (suo è “Belle & Sebastien. L’avventura continua” come pure la miniserie Rai-Lux Vide “Sant’Agostino”), “Un sacchetto di biglie” è un’opera sulla Shoah dalla forte carica educational, adatta a giovani e famiglie. La storia si snoda nella Francia della Seconda guerra mondiale e protagonisti sono due fratelli, Maurice (Batyste Fleurial) e Joseph (Dorian Le Clech), spinti dai genitori a lasciare casa, Parigi, perché ebrei, trovando rifugio presso alcuni parenti a Nizza. Un viaggio denso di insidie e tensioni, ma anche di speranza. Partendo dal romanzo di Joseph Joffo, Duguay dispone la narrazione ad altezza di bambino, seguendo i due giovani protagonisti nel loro viaggio fisico ed emotivo; e proprio il lavoro sui bambini è una delle componenti pregiate del film, che cerca di rendere un tema ostico e doloroso alla portata dei piccoli spettatori, informandoli senza traumatizzarli. “Un sacchetto di biglie” scorre fluido e semplice, posizionandosi come un prodotto valido e di facile comprensione. A livello pastorale il film è consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

“Woman in Gold” (2015)
Firmato dal regista inglese Simon Curtis, “Woman in Gold” (2015) porta finalmente sul grande schermo la storia vera di Maria Altmann, che ha sfidato istituzioni e interessi forti per dare voce alla memoria della sua famiglia, alle vittime della Shoah. È il 1998 quando a Los Angeles Maria Altmann (Helen Mirren), ormai in là con gli anni, decide di intentare causa contro il governo austriaco per l’indebita appropriazione delle opere d’arte della sua famiglia durante il nazismo, tra cui un celebre dipinto di Gustav Klimt. Maria ripone fiducia nel giovane avvocato Randy (Ryan Reynolds) e insieme cominciano una serrata, difficile, battaglia legale internazionale che la ricondurrà nuovamente nella sua Vienna, dalla quale era scappata durante la Seconda guerra mondiale. Un film in difesa della memoria del passato e un invito a non dimenticare, a non chiudere gli occhi dinanzi all’orrore. La storia della Altmann è una pagina di coraggio e testimonianza contro ogni forma di negazionismo o atto di violenza. Il racconto, che procede con una tensione crescente ben governata dal regista Curtis, possiede anche dei riusciti momenti di ironia grazie al carattere sfaccettato della protagonista, dal piglio duro e combattivo, ma sempre pronta a servirsi dell’umorismo per affrontare i momenti più difficili. Potente e poetica l’interpretazione della Mirren. Dal punto di vista pastorale il film è consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

“Storia di una ladra di libri” (2014)
Viene dall’omonimo bestseller di Markus Zusak il film “Storia di una ladra di libri” (“The Book Thief”, 2013) di Brian Percival. Siamo nella Germania al tempo della Seconda guerra mondiale. Liesel (Sophie Nélisse), vivace e coraggiosa ragazzina, viene affidata dalla madre alla coppia formata da Hans e Rosa Hubermann (Geoffrey Rush e Emily Watson), che l’avvicineranno alla bellezza della lettura in un momento così fosco. Inoltre l’amicizia con Max (Ben Schnetzer), giovane ebreo nascosto nello scantinato, renderà la sua vita più fiduciosa. Da una situazione fatta di disagio, difficoltà e privazioni, Liesel ne esce grazie a un’incrollabile voglia di non arrendersi, di tenere sveglio il proprio interesse per la lettura; e i libri si rivelano la finestra aperta verso gli altri, il mondo, la vita. Al di là di alcune soluzioni un po’ prevedibili o didascaliche, il racconto presenta una bella voglia di riscatto. Dal punto di vista pastorale il film è consigliabile, semplice e adatto per dibattiti.

“La vita è bella” (1997)
Ha vinto tre Premi Oscar il film “La vita è bella” (1997) di Roberto Benigni – miglior film straniero, attore e colonna sonora firmata da Nicola Piovani –, film italiano che ha saputo raccontare l’Olocausto con la tenerezza e il guizzo della favola, rendendolo a misura di bambino. È la storia di un padre e di un figlio, Guido (Benigni) e Giosuè (Giorgio Cantarini), rastrellati dai tedeschi perché ebrei e deportati nei campi di concentramento. Tutto l’orrore del lager viene ammorbidito dalle parole del genitore, che inventa un gioco per il figlio piccolo, per difenderlo dall’atrocità del male e regalargli una possibilità di riscatto. Il “comico” Benigni riesce a essere se stesso e calare la propria verve, la propria capacità mimetica, in una situazione di difficoltà assoluta. Ne deriva una sorta di metafora sulle capacità più profonde dell’essere umano, un invito a trovare dentro se stessi la forza per reagire e superare i momenti tragici che la Storia ciclicamente ripropone. L’essere umano, le sue qualità, l’aspirazione a una vita serena e giusta devono sconfiggere anche con un sorriso i portatori di violenza e morte. Dal punto di vista pastorale il film è poetico, raccomandabile e adatto per dibattiti.

Ulteriori titoli da (ri)scoprire
Da riscoprire in chiave pastorale, educativa e familiare si segnalano: “Chi scriverà la nostra storia” (2019) di Roberta Grossman; “Il figlio di Saul” (“Saul fia”, 2015) di László Nemes; “Hannah Arendt” (2012) di Margarethe Von Trotta; “La chiave di Sara” (“Elle s’appelait Sarah”, 2010) di Gilles Paquet-Brenner; “The Reader” (2009) di Stephen Daldry; “Il bambino con il pigiama a righe” (“The Boy in the Striped Pajamas”, 2008) di Mark Herman; “Il pianista” (“The Pianist”, 2002) di Roman Polanski; “Train de vie” (1998) di Radu Mihaileanu; “La tregua” (1997) di Francesco Rosi; “La settima stanza” (“Siódmy pokój”, 1995) di Márta Mészáros; “Jona che visse nella balena” (1993) di Roberto Faenza; “Schindler’s List” (1993) di Steven Spielberg.

Jojo Rabbit

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