Per non dimenticare: il Web Doc CEINews e Cnvf sulla Shoah, una proposta per la Giornata della memoria 2019

sabato 26 Gennaio 2019
Un articolo di: Massimo Giraldi, Sergio Perugini

Per la Giornata della memoria, domenica 27 gennaio, in ricordo di tutte le vittime dell’Olocausto, ecco una proposta ragionata di film sulla Shoah dall’inizio degli anni ’90 a oggi realizzata dalla Commissione nazionale valutazione film CEI e dal portale CEINews.it. Una selezione di sguardi e stili narrativi differenti su un tema ancora oggi centrale e urgente per la nostra società, per favorire una cultura della memoria, contro ogni forma di violenza e negazione della Storia. Una proposta culturale da condividere nei vari ambiti pastorali ed educativi.

“Schindler’s List”
“Cinema è memoria. Il cinema sulla Shoah, in particolare, è diventato il paradigma stesso della memoria”. Scrive così la studiosa Claudia Hassan nel volume “I film studies” (D.E. Viganò, E. De Blasio, Carocci 2013), interrogandosi sul contributo del cinema sulla memoria condivisa dell’Olocausto. Una pagina di cinema che ha certamente contribuito con vigore a questo racconto pubblico è “Schindler’s List” (1993) di Steven Spielberg, vincitore di numerosi riconoscimenti tra cui 7 Premi Oscar, compreso quello per il miglior film; è ora nuovamente nelle sale per il 25° anno dall’uscita. L’opera racconta la storia vera dell’imprenditore tedesco Oskar Schindler, che riuscì a salvare dalla morte oltre un migliaio di ebrei. Il film si snoda in un efficace bianco e nero che non ammorbidisce l’urto della tragedia o la sua complessità, bensì ce la restituisce come un nitido documentario d’epoca. La forza del film, pertanto, risiede proprio nella modalità di racconto adottata da Spielberg, che ci immerge nella Storia con rigore, senza sconti e filtri; la sua regia è compatta e lucida, al pari dello snodarsi dell’orrore, ma trova anche passaggi di poesia. Contribuiscono infine a imprimere forza narrativa al film le interpretazioni di Liam Neeson (Oskar Schindler), così come di Ben Kingsley (il contabile Itzhak Stern) e Ralph Fiennes (l’ufficile nazista Amon Goeth). Dal punto di vista pastorale, il film è stato valutato dalla Cnvf nel 1994 come accettabile-riserve, realistico e adatto per dibattiti (“Segnalazioni cinematografiche”, Vol. 117, pp. 273-277).

“La settima stanza”
È il racconto della storia e della testimonianza di fede di Edith Stein il film “La settima stanza” (“Siódmy pokój”, 1995) di Márta Mészáros. La filosofa ebrea si convertì alla religione cattolica e aderì all’Ordine delle Carmelitane Scalze, assumendo il nome di Teresa Benedetta della Croce; fu deportata ad Auschwitz, dove morì il 9 agosto 1942. Nel 1998 Giovanni Paolo II la proclamò santa, dichiarandola inoltre patrona d’Europa. Il film della Mészáros segue la figura di Edith Stein prima nella sua attività universitaria, come professoressa di Filosofia, scontrandosi con un mondo maschilista e sempre più adombrato dalla minaccia nazista; poi, esplorando i conflitti in famiglia, soprattutto con l’amata madre, per la sua conversione religiosa; da ultimo, la deportazione e l’incontro con la morte nel lager. Il titolo del film richiama il percorso di ascesi carmelitana, le sette stanze o tappe, pertanto non è difficile concludere che la settima stanza sia proprio la camera a gas, dove vediamo – in una sequenza realistica-onirica – Edith Stein rimpicciolita e nuda, raccogliersi in posizione fetale tra braccia della madre finalmente ritrovata. L’immagine di una testimone di fede, così fiera e coerente, piena d’amore per tutti e riconosciuta martire dalla Chiesa cattolica. L’attrice Maia Morgenstern offre una vigorosa interpretazione che accresce il valore del film. Dal punto di vista pastorale l’opera è accettabile e complessa, consigliata per dibattiti.

“La vita è bella”
Ha vinto tre Premi Oscar il film “La vita è bella” (1997) di Roberto Benigni – miglior film straniero, attore e colonna sonora firmata Nicola Piovani –, riconoscimento che ha chiuso idealmente una lunga stagione di premi per il film italiano che ha saputo raccontare l’Olocausto con la tenerezza e il guizzo della favola, rendendolo a misura di bambino. È la storia di un padre e di un figlio, Guido (Benigni) e Giosuè (Giorgio Cantarini), rastrellati dai tedeschi perché ebrei e deportati nei campi di concentramento. Tutto l’orrore del lager viene ammorbidito dalle parole del genitore, che inventa un gioco per il figlio piccolo, per difenderlo dall’atrocità del male e regalargli una possibilità di riscatto. Il “comico” Benigni riesce a essere se stesso e calare la propria verve, la propria capacità mimetica, in una situazione di difficoltà assoluta. Ne deriva una sorta di metafora sulle capacità più profonde dell’essere umano, un invito a trovare dentro se stessi la forza per reagire e superare i momenti tragici che la Storia ciclicamente ripropone. L’essere umano, le sue qualità, l’aspirazione a una vita serena e giusta devono sconfiggere anche con un sorriso i portatori di violenza e morte. Dal punto di vista pastorale, il film è senza dubbio raccomandabile.

“Il pianista”
Vincitore di 3 Premi Oscar – regia, attore Adrien Brody e sceneggiatura non originale – il film “Il pianista” (“The Pianist”, 2002) di Roman Polański si ispira alla storia vera di Władysław Szpilman, musicista sopravvissuto in clandestinità durante i rastrellamenti nel ghetto di Varsavia. Storia vibrante di un testimone degli orrori del nazismo nel cuore dell’Europa. Collocando in campi lunghi, da lontano, gli scontri a fuoco e i bombardamenti, Polanski pedina l’umanità e la disumanità degli uomini, non ha paura di mostrare alcuni ebrei collaborazionisti e altri affaristi senza scrupoli, riesce ad essere equilibrato e minuzioso, a cadenzare i battiti del cuore per l’indicibile sgomento di fronte a situazioni di abissale efferatezza. È l’idea del male assoluto che Polanski ha ben presente e che vuole superare con un racconto-confessione che ha il tono del documento lirico e drammatico; c’è inoltre il richiamo alla sacralità dell’individuo e alla musica vista come la messa in ordine di un disordine in apparenza irrecuperabile. Come una luce in fondo al tunnel del buio. Dal punto di vista pastorale il film di Polanski è raccomandabile, problematico e da affidare anche a dibattiti.

“Il bambino con il pigiama a righe”
Tratto dal romanzo di John Boyne, “Il bambino con il pigiama a righe”(“The Boy in the Stripped Pajamas”, 2008) di Mark Herman è un racconto della Shoah visto con gli occhi e le emozioni di due bambini. Siamo nella Germania della Seconda guerra mondiale, Bruno ha 8 anni e segue il padre, ufficiale nazista, nel suo nuovo incarico di direttore di un campo di sterminio. Totalmente inconsapevole della follia e dell’atrocità del luogo, Bruno un giorno incontro Shmuel, un coetaneo che vive dall’altro lato del filo spinato. Nasce immediatamente un dialogo e un’amicizia, su cui piomberà inesorabile la “soluzione finale”. Lo scarto che rende il film indimenticabile è relativo alla scelta di mettere a fianco la semplicità e l’assoluto: la semplicità è nella mente e nel cuore dei bambini, nella loro ingenuità istintiva e diretta che li fa sempre andare avanti; l’assoluto è quel male che li aspetta e verso il quale si dirigono senza alcun sospetto. La regia di Herman è pacata, misurata, nitidissima, a significare che la semplicità è la chiave migliore per parlare di tragedie passate e riuscire senza pedanterie a essere campanello d’allarme per il presente. Dal punto di vista pastorale il film è raccomandabile, problematico e adatto per dibattiti.

“Storia di una ladra di libri”
Viene dall’omonimo bestseller di Markus Zusak il film “Storia di una ladra di libri” (“The Book Thief”, 2013) di Brian Percival. Siamo nella Germania al tempo della Seconda guerra mondiale. Liesel, vivace e coraggiosa ragazzina, viene affidata dalla madre alla coppia formata da Hans e Rosa Hubermann (Geoffrey Rush e Emily Watson), che l’avvicineranno alla bellezza della lettura in un momento così fosco. Inoltre l’amicizia con Max, giovane ebreo nascosto nello scantinato, renderà la sua vita più fiduciosa. Da una situazione fatta di disagio, difficoltà e privazioni, Liesel esce a poco a poco grazie a un incrollabile voglia di non arrendersi e di tenere sveglio il proprio interesse per la lettura, i libri come finestra aperta verso gli altri, il mondo, la vita. Per qualche tratto un po’ prevedibile e qua e là alquanto didascalico, il racconto costeggia una bella voglia di riscatto e di uscita dal buio, disegna personaggi segnati da ottimismo e positività. Dal punto di vista pastorale, il film è consigliabile e semplice.

“Il figlio di Saul”
In concorso al 68° Festival di Cannes, dove ha attenuto il Gran Premio della Giuria, nonché vincitore del Golden Globe e dell’Oscar 2016 come miglior film straniero, “Il figlio di Saul” (“Saul fia”, 2015) è l’opera prima del regista ungherese László Nemes. Il giovane autore, documentandosi sulla Shoah propone un crudo viaggio nell’inferno di Auschwitz, offrendo una prospettiva inedita sull’orrore. È storia dell’ebreo Saul (Géza Röhrig), internato nel campo di concentramento di Auschwitz, il quale è costretto nei gruppi Sonderkommando a occuparsi della tragica fine dei prigionieri. Mentre lavora in uno dei forni crematori, scopre il cadavere di un ragazzo in cui crede di riconoscere il proprio figlio. Saul dunque fa il possibile per salvare quel corpo e offrirgli una corretta sepoltura, con il conforto della preghiera. Il film è quasi tutto giocato con una falsa soggettiva, un’inquadratura che riprende il protagonista da vicino, seguendolo di spalle; permette in questo modo di cogliere con più incisività lo stato di angoscia e smarrimento dei prigionieri nel campo di concentramento. Nemes è abile a lasciare l’orrore fuori dall’inquadratura, non lo chiama mai in campo; questo, però, non lo rende meno presente, insistente. Ne avvertiamo infatti, al seguito di Saul, tutta la sua efferatezza. “Il figlio di Saul” è un’opera di grande pregio, per la capacità di offrire allo spettatore una prospettiva diversa sul dramma della Shoah, regalando una preziosa testimonianza. Film consigliabile e problematico, per non dimenticare.

“Woman in Gold”
“Woman in Gold” (2015) di Simon Curtis porta sul grande schermo la storia vera di Maria Altmann, che ha sfidato istituzioni e interessi forti per dare voce alla memoria della sua famiglia, alle vittime della Shoah. La storia risale al 1998, a Los Angeles, quando Maria Altmann (Helen Mirren), anziana, decide di intentare causa contro il governo austriaco per l’indebita appropriazione delle opere d’arte della sua famiglia durante il nazismo, tra cui un celebre dipinto di Gustav Klimt. Maria ripone fiducia nel giovane avvocato Randy (Ryan Reynolds) e insieme cominciano una complessa battaglia legale internazionale, che la ricondurrà anche a Vienna. Un film in difesa della memoria del passato e un invito a non dimenticare, a non chiudere gli occhi dinanzi all’orrore. La storia della Altmann è una pagina di coraggio e testimonianza contro ogni forma di negazionismo o atto di violenza. Il racconto, che procede con una tensione crescente ben governata dal regista Curtis, possiede anche dei riusciti momenti di ironia grazie al carattere sfaccettato della protagonista, dal piglio duro e combattivo, ma sempre pronta a servirsi dell’umorismo per affrontare i momenti più difficili. Potente e poetica l’interpretazione della Mirren. Dal punto di vista pastorale, il film è consigliabile e problematico.


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Il bambino con il pigiama a righe

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