(Ri)scoprirsi padre e figlio

venerdì 17 Luglio 2020
Un articolo di: Sergio Perugini

“Tutto il mio folle amore” di Gabriele Salvatores terzo film sul tema della disabilità promosso da Cnvf e Servizio per la pastorale persone con disabilità CEI

Un padre e un figlio on the road, alla scoperta del mondo, alla scoperta di sé. È questo il filo rosso del film “Tutto il mio folle amore” (2019) di Gabriele Salvatores, una commedia con sfumature drammatiche che vira però verso i sentieri della fiaba, affrontando i temi della famiglia, del rapporto genitori-figli e del disturbo dello spettro autistico. Presentato fuori concorso alla 76a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, il film con Claudio Santamaria, Valeria Golino, Diego Abatantuono e Giulio Pranno prende le mosse dal romanzo di Fulvio Ervas “Se ti abbraccio non avere paura”, dalla storia vera di Andrea e Franco Antonello. “Tutto il mio folle amore” è il terzo titolo del ciclo cinema e disabilità proposto dalla Commissione nazionale valutazione film – Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali insieme al Servizio Nazionale per la pastorale delle persone con disabilità della Conferenza Episcopale Italiana.

Il viaggio di Willy e Vincent
Italia del Nord. Vincent (Giulio Pranno) è un ragazzo di sedici anni con disturbo dello spettro autistico; il suo nome viene dalla canzone “Vincent” di Don McLean dedicata al pittore van Gogh, brano che lo lega al padre Willy (Claudio Santamaria), cantante che non ha mai conosciuto che gira tenendo concerti per l’Italia e la zona dei Balcani. Vincent è cresciuto con la madre Elena (Valeria Golino) e il padre adottivo Mario (Diego Abatantuono); è amato, sostenuto e stimolato. L’assenza del padre però è ingombrante. Un giorno, trovandosi in zona, Willy decide di far visita a Elena e scopre Vincent, scopre di avere un figlio ormai sedicenne con disabilità. Sulle prime è sorpreso, spiazzato. Riluttante alle responsabilità, Willy decide di tornare on the road per proseguire il suo quieto vivere tra una balera e l’altra; a sparigliare le carte però ci pensa Vincent, che si intrufola di nascosto nella macchina del padre e parte con lui alla volta di un’avventura tra Croazia e Slovenia. È l’occasione per i due per imparare a conoscersi, riannodando piano piano i fili sfibrati di quel legame mai dimenticato. Nel mentre, in apprensione, la madre Elena con il marito Mario si mettono anche loro in macchina per ritrovare il ragazzo, per cercare di ricomporre l’equilibrio familiare…

Superare le barriere della disabilità e del cuore
“Il viaggio, la musica, le strade senza nome – sottolinea Gabriele Salvatores – dove emozioni e sentimenti trovano spazio per volare. Insomma, rock and roll! Come il Pifferaio Magico o un ‘fool’ shakespeariano, un ragazzo di sedici anni si trascina dietro, per strade deserte, i tre adulti più importanti della sua vita. E li costringe a fare i conti con se stessi e con l’amore che ognuno di loro è riuscito a conservare dentro di sé. Visto da vicino, nessuno è normale. E si può scoprire che è possibile amare anche chi è diverso da noi, a patto di non aver paura di questa diversità”.
Gabriele Salvatores ha presentato così il film alla Mostra del Cinema della Biennale di Venezia 2019, passando come evento speciale fuori concorso; il regista napoletano, premio Oscar per “Mediterraneo” nel 1991 e autore di molti titoli a sfondo educativo, tra cui “Io non ho paura” del 2003 e “Il ragazzo invisibile” del 2014, si confronta con il tema della disabilità, ma non direttamente. Quando afferma che “nessuno è normale”, rimarca un aspetto centrale del film: la disabilità del sedicenne Vincent non è il problema, qui il problema è la responsabilità genitoriale, il bisogno di ricentrarsi nel ruolo educativo, ristabilendo quel legame con il proprio figlio.
A ben vedere, chi vive una condizione di “disabilità” nel racconto è in primis il padre Willy, che è stato sempre riluttante ad assumersi le proprie responsabilità. Willy è un quarantenne senza meta, un girovago della musica, che in un momento di esitazione ritorna sui passi della propria esistenza. Scopre di essere padre, un ruolo non può essere più silenziato, marginalizzato: per Willy è venuto il momento di guardarsi dentro e di scoprire che non è più solo, uno spirito libero, ma ha qualcuno, suo figlio, di cui occuparsi, che ha bisogno della sua parola e della sua presenza. Da padre, Willy deve imparare a conoscere Vincent, a comprendere modi e dinamiche di comunicazione differenti, dettati dalla sua disabilità ma anche dal suo carattere.
Sempre sul fronte della genitorialità, altra figura in affanno è la madre Elena, che ha costruito uno schema perfetto attorno al figlio Vincent, uno schema però che difetta della presenza del padre. Elena ha reagito al meglio dinanzi alla latitanza del vero padre di Vincent, così ha lavorato per impostare una vita in maniera solida, incontrando un uomo premuroso, Mario, che le ha offerto amore, prossimità e soprattutto affidabilità nel cammino educativo di Vincent. Per troppo amore, però, Elena ha “rinchiuso” il proprio figlio in un posto sicuro, senza margini di libertà.
A infrangere questo schema ci pensa lo stesso Vincent, sedicenne con disturbo dello spettro autistico, che desidera vivere un’esistenza piena al di là della sua condizione; vuole essere felice sì con la sua famiglia, insieme alla madre Elena e al padre adottivo Mario, ma anche con il suo vero padre Willy. Ancora, Vincent vuole uscire da quel rigido binario che la madre gli ha costruito, desiderando respirare la vita del mondo fuori a pieni polmoni e lo fa alla prima occasione utile, quando il padre Willy si presenta per caso alla sua porta.
Gabriele Salvatores, servendosi della commedia brillante che sconfina nei sentieri della favola, ci racconta il bisogno di ritrovarsi anzitutto come genitori, un riconciliarsi con quel ruolo fondamentale nel cammino di crescita di un figlio, di un giovane che si va affacciando alla soglia dell’età adulta. Il tema della disabilità di Vincent non è gestito in maniera ingombrante o pietistica, al contrario, è un elemento centrale nel racconto ma mai dominante. A dominare sono le dinamiche genitore-figlio, quelle del cuore; la questione della disabilità rimane sfocata rispetto al bisogno di ritrovare le vie della tenerezza.
Salvatores nel racconto rifugge gli stereotipi narrativi sull’autismo, ci mostra la realtà ma imprime colori della favola, una favola certo a sfondo sociale, che conquista per la sua delicatezza e freschezza, anche grazie a interpreti di grande talento; da rimarcare in particolare il lavoro di Claudio Santamaria, così attento e accurato nel tratteggiare l’evoluzione del suo personaggio dalla solitudine alla scoperta della paternità.
Al di là di qualche passaggio meno riuscito o poco convincente, che rischia di smorzare realismo e intensità, nell’insieme “Tutto il mio folle amore” è un film riuscito e di grande qualità, che conquista per la tenerezza che infonde. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico per i temi affrontati e adatto per dibattiti.

Il punto del Servizio per la pastorale delle persone con disabilità
“Il film approfondisce il tema del viaggio – indica suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio CEI per la pastorale delle persone con disabilità – un viaggio sì esteriore, ma principalmente interiore, quello che compiono i due genitori di Vincent: il percorso della madre Elena, che ha cresciuto il figlio con disturbo dello spettro autistico tra rabbia, dolore e protezione; il cammino che compie il padre Willy, che all’inizio non capisce questo figlio ma progressivamente trova una via di comunicazione con lui. Attraverso la metafora del viaggio questo film aiuta, dunque, a riscoprire che è possibile amare chi è diverso da noi, come pure perdonare. ‘Tutto il mio folle amore’ è un’opera interessante, inoltre, perché mette a fuoco la difficoltà di genitori che hanno figli con disabilità complesse, come a volte può essere la sindrome dello spettro autistico, genitori che spesso si sentono soli o che si trovano ad agire in maniera separata, se non quando uno dei due arriva persino a sottrarsi a tali responsabilità perché spaventato dalla diversità. Il film offre pertanto uno spiraglio di speranza, una bella possibilità di ‘normalità’ in questo viaggio che i membri di questa famiglia compiono insieme”.

Tutto il mio folle amore

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