Con “Il sol dell’avvenire” Nanni Moretti firma il suo “8½” giocato tra ironia e malinconia

venerdì 21 Aprile 2023
Un articolo di: Sergio Perugini

L’ultima Palma d’oro che l’Italia ha vinto al Festival di Cannes risale al 2001, ed è quella per “La stanza del figlio” di Nanni Moretti. A distanza di ventidue anni si torna a sperare proprio con un altro suo film, “Il sol dell’avvenire”, dal 20 aprile in 500 copie nei cinema italiani con 01 Distribution, una produzione targata Sacher Film, Fandango, Rai Cinema e Le Pacte. Moretti si presenta in gara sulla Croisette – ci sono anche Marco Bellocchio con “Rapito” e Alice Rohrwacher “La chimera” – con un film bellissimo, marcatamente “morettiano”: non un’opera-testamento, ma una riflessione acuta, brillante e malinconica sul cinema, sull’atto creativo e le difficoltà che si sperimentano oggi in un consumo culturale veloce e rapace, dove a far la voce grossa sono soprattutto le piattaforme. Moretti va coraggiosamente “controcorrente”, come lui stesso ribadisce, continuando a fare film per il cinema, per gli spettatori in sala. “Il sol dell’avvenire” è un’opera stratificata, ariosa, densa di riflessioni e suggestioni, alternando più piani narrativi: è un film nel film, uno sguardo ironico e disincantato sulla professione e al contempo un viaggio nelle pieghe della Storia, nella Roma del 1956, al tempo dell’invasione sovietica in Ungheria. Un involontario parallelismo con il presente, con il confine d’Europa in fiamme per una nuova, inaccettabile, invasione di campo. Il Punto Cnvf-Sir.

Multiverso Moretti
Scritto dallo stesso Moretti insieme a Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella, “Il sol dell’avvenire” è un’opera composita che contiene più piste narrative. Anzitutto, si parte dalla Roma di oggi dove Giovanni (Moretti) è un regista pronto a girare il suo nuovo film. A produrlo, come sempre, è la moglie Paola (Margherita Buy), che questa volta si divide con il set di un film action-poliziesco – cosa che a Giovanni fa storcere il naso –, mentre le musiche sono curate dalla loro figlia Emma (Valentina Romani), che ha appena rivelato ai genitori di essersi innamorata di un diplomatico polacco settantenne (Jerzy Stuhr). Nonostante il coproduttore francese Pierre (Mathieu Amalric) manifesti un entusiasmo trascinante, non sono pochi gli affanni produttivi: non resta altro che bussare alla porta di Netflix.
A tutto questo si sovrappongono le sequenze del film realizzato da Giovanni: nella Roma del 1956, in periferia, dove sono appena arrivati la corrente elettrica e i primi televisori, ad animare l’impegno civico è un caposezione del Pci (Silvio Orlando), un giornalista del quotidiano “L’Unità”, affiancato da una tenace “pasionaria” (Barbora Bobulova). Sono i giorni in cui giunge nel quartiere un circo ungherese, proprio quando l’Ungheria viene occupata dai carri dell’Unione sovietica: uno shock per tutti, soprattutto per alcuni militanti del Pci che chiedono un segnale di discontinuità, una parola di condanna da parte di Palmiro Togliatti.

Un film politico, che si smarca dalla politica
Il filo rosso della politica corre lungo i vari titoli di Nanni Moretti. Nonostante ci sia un evidente richiamo alla militanza nel Pci, “Il sol dell’avvenire” a ben vedere si smarca dalla politica. Vero cuore narrativo è infatti il valore del cinema, inteso come sguardo vitale e necessario, sempre attuale, al di là delle seducenti sirene delle piattaforme che spingono gli spettatori altrove, lontano dalla sala.
Nello spassoso faccia a faccia di Giovanni e Paola con i delegati Netflix (Elena Lietti), le trattative si spiaggiano in maniera tragicomica davanti a una ripetizione senza sosta di algoritmi, percentuali e slogan come “siamo presenti in 190 Paesi”. Moretti, con una ironia affilata, non pungola di per sé Netflix, ma quella tendenza produttiva tesa a ridurre un progetto a una tombola di numeri e cifre senz’anima. L’autore chiede di più, un ritorno a una visione consapevole.
Ancora, in un’altra sequenza esilarante assistiamo allo sfogo di Giovanni rivolto a un giovane regista di thriller-polizieschi, che sta girando la scena di un’esecuzione criminale. Attraverso il suo alter ego, Moretti si lancia in un’accorata denuncia contro tale deriva estetica e morale. Punta il dito contro quel cinema o serie Tv che rincorrono pedissequamente il fascino della violenza, del Male, fine a se stesso.
Con “Il sol dell’avvenire” Moretti firma un film politico nel senso più alto del termine, prendendo una posizione culturale precisa. Anzitutto l’autore invita a una reazione deontologica, valoriale; poi, sembra esortare a una custodia del cinema per tutelare la salute stessa della società: il cinema è un avamposto culturale contro la logica del deterioramento, una frontiera di resistenza dinanzi allo smarrimento in atto. Il cinema come sguardo capace di leggere la complessità del presente e le sue fratture, allargando al contempo l’orizzonte a una ritrovata fiducia.

Un caleidoscopio di canzoni e citazioni
“Il sol dell’avvenire” è anche un trionfo di musica. Nella storia principale, Giovanni confida alla moglie Paola di voler fare un film con le canzoni italiane. E così avviene: nel corso della narrazione si aprono momenti in cui irrompono i brani di Noemi (“Sono solo parole”), Franco Battiato (“Voglio vederti danzare”), Aretha Franklin (“Think”) o Fabrizio De André (“La canzone dell’amore perduto”), cantati da tutto il cast. Scene corali, quasi oniriche, come quella in cui il regista e l’intera troupe bloccano le riprese e iniziano a girare su loro stessi come dervisci rotanti sulle note di Battiato. Insomma, un “La La Land” morettiano da cui filtrano fantasie, amarezze e malinconie.
Ancora, “Il sol dell’avvenire” è puntellato da rimandi cinematografici: da “Lola” (1961) di Jacques Demy con Anouk Aimée, giocoso “feticcio” del regista Giovanni che lo riguarda religiosamente ogni cinque anni all’avvio di un nuovo film, a “The Father” (2021) di Florian Zeller con Anthony Hopkins, citazione che Moretti usa per lanciarsi in una simpatica invettiva contro il ripugnante uso di ciabatte e soprattutto di sabot. Ancora, spazio a “San Michele aveva un Gallo” (1972) dei Taviani, “Apocalypse Now” (1979) di Francis Ford Coppola o “Un uomo a nudo” (1968) di Frank Perry, dal romanzo “Il nuotatore” di John Cheever.

Un “8½” morettiano dalle striature ironiche e commoventi
Più che una semplice citazione, lo possiamo definire un personale confronto artistico: è il richiamo che Nanni Moretti fa a “8½” (1963) di Federico Fellini, di cui ricorrono i 60 anni. Un omaggio diffuso lungo tutto “Il sol dell’avvenire”, trovando il suo climax nella sequenza finale, lì dove i diversi piani narrativi convergono. Come nel film di Fellini sul finale si assiste alla parata del circo, al carosello corale, teso a simboleggiare il superamento della crisi creativa-esistenziale del regista Guido (Marcello Mastroianni), allo stesso modo nell’opera di Moretti va in scena una parata che simboleggia una ritrovata speranza. Si coglie anzitutto il riscatto del caposezione Pci che accantona l’idea di morte per la delusione politica vira a favore di un sogno d’amore; c’è poi il riscatto del regista Giovanni, che nonostante difficoltà professionali e tempeste familiari (l’improvvisa crisi con la moglie Paola, la figlia fidanzata con un settantenne), si scopre resiliente e comunque fiducioso, pronto a guardare avanti. Inoltre, si intravede il sogno di riscatto del cinema tout court, che nonostante le continue emorragie sa di potercela fare, di essere importante per lo spettatore. Un carosello morettiano che attiva belle emozioni, al crocevia tra sorriso e lacrime. “Il sol dell’avvenire” è un’opera che conquista e affascina, un film che scorre sicuro e agile con briosa leggerezza e nostalgia, puntellato qua e là da poesia. Consigliabile, problematico, adatto per dibattiti.

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