Il volto di Gesù al cinema in 7 film. Un webdoc per cogliere i diversi sguardi sulla croce

mercoledì 17 Aprile 2019
Un articolo di: Massimo Giraldi, Sergio Perugini

Una proposta in sette film per accostarsi alla Croce, per riflettere e meditare con il cinema sul sacrificio e la morte di Gesù, sul miracolo della risurrezione. Sette proposte, rintracciate lungo la storia del cinema, dagli anni Sessanta a oggi, per cogliere i diversi sguardi sulla Croce, di autori e industrie culturali differenti. Un Web-Doc della Commissione nazionale valutazione film e dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali con il portale CEInews.it.

“La più grande storia mai raccontata”
Nelle sale cinematografiche nel 1965, “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens prende le mosse dall’omonimo libro di Charles Fulton Oursler e anche dai Vangeli, uno degli ultimi kolossal religiosi della Hollywood classica, poiché le grandi major, costrette da una seria crisi del settore nonché dall’emergere di nuove tendenze cinematografiche, abbandonano (per il momento) tale genere. “La più grande storia mai raccontata” ripercorre la vita di Gesù (Max von Sydow), dalla nascita all’età adulta, all’incontro con Giovanni Battista (Charlton Heston) e gli apostoli; seguono le guarigioni e i miracoli, sino all’ultima cena e alla morte in croce, alla risurrezione. Il regista realizza un’opera certamente suggestiva ed efficace, in linea con lo stile narrativo classico del tempo, teso a valorizzare in maniera spettacolare gli eventi storici e gli aspetti miracolosi. Dalla scheda della Commissione nazionale valutazione film redatta nel 1966 emerge la seguente valutazione pastorale: “Si tratta di una versione della vita di Cristo realizzata con tono prevalentemente spettacolare che, mantenendosi fedele ad una concezione un po’ oleografica e superficiale, accosta brani meno felici ad episodi di grande efficacia drammaturgica. L’opera è comunque rimarchevole per le grandiosità dei mezzi impiegati e per la dignità della sua realizzazione”.

“Il Vangelo secondo Matteo”
Il percorso di “avvicinamento a Gesù” per Pier Paolo Pasolini inizia già con i primi film, “Accattone” (1961), “Mamma Roma” (1962) e “Ricotta” (1963). Nel “Vangelo secondo Matteo” Pasolini offre una rappresentazione della vita di Cristo con un’attenzione precisa al testo di Matteo, facendo emergere anche la complessità, gli aspetti problematici del messaggio di Gesù. Non siamo più dinanzi a una figura accomodante, come nel cinema hollywoodiano, bensì al Messia venuto in mezzo agli ultimi, ai poveri e disgraziati, per tracciare il cammino con voce netta e inequivocabile. Ambientato nel Meridione, in particolare a Matera, Pasolini sceglie uno stile dimesso, un linguaggio a tratti anti-cinematografico, per accostarsi rispettosamente al testo di Matteo. Nonostante il dibattito e le polemiche che precedono l’uscita del film (e che seguitano), “Il Vangelo secondo Matteo” segna sì un momento importante per la storia del cinema, ma anche per la stessa Chiesa. La Chiesa accoglie, infatti, benevolmente il film di Pasolini: il regista riceve il premio cattolico internazionale OCIC (oggi SIGNIS) alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1964, inoltre viene accordata una proiezione speciale del film per i Padri conciliari nell’ottobre dello stesso anno. Questo sottolinea la stagione di dialogo, di riconciliazione, promossa nello spirito del Concilio Vaticano II; una Chiesa aperta all’incontro con l’altro, con chi, come Pasolini, vive una chiara (irrisolta) distanza (Cfr. D.E. Viganò, Il Vaticano II e la comunicazione. Una rinnovata storia tra Vangelo e società, Paoline, Milano 2013). Nella scheda della Commissione nazionale valutazione film redatta nel 1964 si legge: “Nobile illustrazione del Vangelo, con una ragguardevole aderenza al testo sacro, in cui la figura di Cristo è evocata con sobrietà e senza manchevolezze di gusto. Lo stile di chiara evidenza realistica che rifugge dall’iconografia tradizionale, l’aderenza degli attori all’interpretazione pasoliniana del Vangelo e i suggestivi effetti musicali rendono il film interessante”.

“Jesus Christ Superstar”
Ispirato all’opera rock di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice, il film “Jesus Christ Superstar” diretto da Norman Jewison affronta la figura di Gesù raccontando gli ultimi sette giorni della sua vita, sino alla morte in croce. Molti i tratti peculiari: oltre a iscriversi nel genere musical e a proporre una rappresentazione densa di colori, di richiami alla cultura hippy dell’epoca, l’opera presenta la figura di Gesù (Ted Neeley) in maniera fortemente umana, senza che compaiano riferimenti alla sua natura divina. È un Messia che non compie miracoli, ma che è schiacciato dal peso della sua missione. Figura centrale della narrazione è Giuda (Carl Anderson), proposto non come traditore, bensì come “strumento provvidenziale”, chiamato a compiere un disegno divino, ad aiutare Cristo nel suo cammino verso la croce. Non c’è alcun riferimento, poi, alla figura di Maria; l’unica protagonista femminile risulta, infatti, Maria Maddalena (Yvonne Elliman). La scheda della Commissione nazionale valutazione film, redatta nel 1974, riporta: “Una tale fisionomia di spettacolo-fantasia-religiosa è esaltante e stimolante, anche per la ricchezza artistica del lavoro; merita perciò una raccomandazione, ma esige, tuttavia, un accostamento avveduto e cosciente. Raccomandabile/difficile” (Segnalazioni cinematografiche, vol. 76 – 1974, pp. 206-207).

“I giardini dell’Eden”
Sceneggiato dal regista Alessandro D’Alatri insieme allo scrittore ebreo Miro Silvera, facendo tesoro anche delle indicazioni del priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, il film “I giardini dell’Eden” ha la peculiarità di voler approfondire gli anni della formazione di Gesù, gli anni “bui” su cui non si ha documentazione chiara da parte dei Vangeli; l’opera di D’Alatri tratteggia l’ambiente culturale in cui presumibilmente Gesù è vissuto. Il film presenta, infatti, la storia del giovane Jeoshua (Kim Rossi Stuart) nel passaggio dall’adolescenza, dal momento del Bar Mitzvah, all’età adulta, sino all’episodio dell’arresto di Giovanni Battista e all’incontro con i primi discepoli. La scheda della Commissione nazionale valutazione film, redatta nel 1998, indica: “Il film racconta una verità essenziale per la fede cristiana: l’umanità di Gesù, che non è affatto scontata. Il regista D’Alatri racconta un Gesù che, accanto al padre e alla madre, impara a pregare, apprende la storia del suo popolo, forma a poco a poco le proprie capacità di giudizio sulle vicende alle quali partecipa. […] Una voglia sincera di ricostruire un’immagine di Gesù non diversa o stravolta ma in grado di parlare all’uomo distratto e spesso confuso di fine Millennio. Per tutti questo motivi il film, di taglio problematico, è da valutare come raccomandabile e da consigliare per dibattiti» (Segnalazioni cinematografiche, 1998, n. 126, pp. 117-119).

“La Passione di Cristo”
Ispirandosi ai Vangeli e alle visioni della beata Anna Katharina Emmerick, Mel Gibson racconta nel film “La Passione di Cristo” le ultime dodici ore della vita di Gesù, dalla cattura nell’orto degli ulivi alla sua condanna, sino alla salita al Golgota, alla morte in croce. Nel mettere in scena la dolorosa Via Crucis, il regista intervallata la narrazione con alcuni brevi flashback che richiamano dei momenti della vita di Gesù (James Caviezel), dall’infanzia segnata dal legame con la madre Maria (Maia Morgenstern) alla vita adulta, insieme ai discepoli. Prendendo le mosse anche dalle suggestioni della pittura nordeuropea (in particolare, Matthias Grünewald e Albrecht Dürer) e recuperando le ambientazioni del film “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, Gibson propone una nuova rappresentazione della passione di Cristo con uno stile visivo molto duro, esplicito, caratterizzato da un linguaggio cinematografico contemporaneo, abituato ormai a un’esibizione della violenza. La scheda della Commissione nazionale valutazione film, redatta nel 2004, riporta la seguente valutazione pastorale: “Dinanzi (…) a sì tanta violenza, enfatizzata non solo da immagini continuamente reiterate ma anche dall’utilizzo del rallenty, è il caso di rammentare che la morte di Gesù in croce ci salva non per la quantità del dolore subito – per quanto incalcolabile – ma per il fatto che Gesù ha vissuto l’infamante patibolo e l’immenso supplizio in assoluta fedeltà al Padre e in piena apertura d’amore all’umanità” (Segnalazioni cinematografiche, 2004, n.137, pp. 212-216).

“Su Re”
“Su Re” di Giovanni Columbu è una rappresentazione della Passione di Cristo calata in Sardegna, negli spazi brulli dell’entroterra sardo, tutto girato in dialetto. Una povertà voluta, ricercata, nei luoghi così come nei volti degli interpreti. Colpisce soprattutto la decisa umanizzazione della figura di Cristo (Fiorenzo Mattu), ritratto di un’umanità comune, distante dai canoni classici cui il cinema ci ha abituato, in primis Franco Zeffirelli. Un calvario raccontato con straordinaria intensità, in maniera poetica, senza ricorrere a una facile (furba) esibizione della violenza. Columbu gioca, invece, in sottrazione, come Pasolini. La scheda della Commissione nazionale valutazione film, redatta nel 2013, riporta la seguente valutazione pastorale: “L’approccio ai testi evangelici è del tutto rispettoso, la cornice fatta di elementi naturali veri e realistici (vento, luce, alberi) affianca una fotografia che costeggia esempi del seicento spagnolo e suggestioni caravaggesche. Parole e sguardo creano un humus profondamente spirituale, dicono che un cinema religioso oggi esiste, affidato a coraggio, lucidità, capacità di uscire dal convenzionale. Magari tra provocazioni sul piano espressivo e rischi su quello commerciale. Ma altrimenti che Vangelo sarebbe? Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come raccomandabile, problematico e adatto per dibattiti” (www.cnvf.it).

“Gran Torino”
“Gran Torino” (2009) di Clint Eastwood propone la storia del reduce di guerra Walt Kowalski (Eastwood), anziano vedovo che guarda ormai alla vita con amarezza e rassegnazione. L’incontro con il giovane adolescente Thao (Bee Vang), di etnia Hmong, anche lui solo ed emarginato dalla vita, lo spinge a un radicale cambiamento. Lo scontroso Kowalski abbandona il suo astio a favore della tenerezza, del desiderio di riconciliazione. Arriva persino a sacrificarsi per il giovane ragazzo, evitando così che si lasci contaminare dall’odio e dal senso di vendetta, dal male. Kowalski prende su di sé la croce, carica su di sé il fardello del peccato al posto del giovane ragazzo, componendo una dolorosa, poetica, Via Crucis: “Il protagonista Walt – sottolinea il card. Gianfranco Ravasi – giunge a un approdo di redenzione e – come in ‘Mamma Roma’ di Pasolini ove il figlio muore ‘crocifisso’ su un letto d’ospedale – egli chiude il suo itinerario umano in una crocifissione orizzontale. È quasi un’imitatio Christi, facendosi carico dei peccati suoi, di Thao (…) e dell’intera tormentata e lacerata società” (G. Ravasi, SdC, n. 1, dicembre 2010). La scheda della Commissione nazionale valutazione film, redatta nel 2009, riporta la seguente valutazione pastorale: “Il copione riesce ad arrivare alla soluzione del sacrificio finale senza assolutizzare il gesto, bilanciato dall’idea della morte comunque incombente causa malattia. E tuttavia la forza dell’esempio rimane, incisiva e incancellabile, aggrappata a quell’Ave Maria appena sussurrato sottovoce, prima di consegnarsi alle pallottole dei teppisti” (www.cnvf.it).

Il Web-Doc originale è pubblicato sul sito CEUnews.it


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