Proposta numero dodici per l’Anno della Fede

mercoledì 31 Luglio 2013
Un articolo di: Redazione

Ingmar Bergman chiude gli anni Cinquanta con “La fontana della vergine” (1959). Per il regista svedese, il decennio successivo si apre con “L’occhio del diavolo” (1960), cui fa seguito quella che sarò definita la ‘trilogia dedicata al problema religioso. Dopo “Come in uno specchio” (1961), seguono “Luci d’inverno” (1962) e “Il silenzio” (1963).  Sono anni di grande fervore creativo per Bergman, quelli nei quali la sua riflessione si concentra con crescente intensità sul problema della Fede, della Presenza/Assenza di Dio, del libero arbitrio dell’individuo. “Luci d’inverno”  rappresenta il punto forse più alto di un travaglio spirituale molto profondo, che scopre i propri limiti speculativi e si rifugia in un territorio inesplorato tra paura e speranza. Al centro della storia c’è Tomas Ericsson, pastore protestante. Questi, da quando ha perduto la moglie per la quale nutriva un grande affetto, attraversa una grave crisi, che lo porta alla perdita della Fede in Dio. Rileggiamo la valutazione espressa dal Centro Cattolico Cinematografico:

VALUTAZIONE:  La straordinaria abilità di Bergman nel rendere visivamente i più profondi temi della problematica spirituale, si rivela ancora una volta in questo lavoro imperniato sulla figura di un prete protestante travagliato da una grave crisi di fede. Senza divagazioni inutili, in una cornice fredda e implacabile che riveste il dramma di crudo realismo (…) il film si muove in una atmosfera piuttosto inconsueta al cinema e difficilissima,ma tuttavia precisa e piena di mordente  (…).

GIUDIZIO MORALE:  Il coraggio di presentare sullo schermo un personaggio tormentato dal “silenzio di Dio” nonché il problema della Fede, sia pure al di fuori di schemi rigorosamente cattolici, ha un valore decisamente positivo. Il film non diverte, non fa spettacolo nel senso tradizionale del termine, ma per chi ha il coraggio di superare la freddezza iniziale è un’ottima meditazione, anche se talora il dialogo prevale sulla vicenda drammatica, e forse troppe vaghe sono le luci di speranza in un mondo troppo chiuso in se stesso. Il lavoro va visto da un pubblico di adulti ed offre buoni spunti per dibattiti non soltanto sui valori estetici ma umano-spirituali.

(Segnalazioni Cinematografiche, vol. LIV/3- 1963)


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