Punto Cnvf-Sir: “No Time to Die”, quando l’azione si tinge di sentimento

giovedì 30 Settembre 2021
Un articolo di: Sergio Perugini

Rimane appiccicato addosso, e a lungo, con una punta di malinconia, “No Time to Die”, il 25° film della saga 007. È infatti a dir poco spiazzante l’ultima avventura di James Bond diretta da Cary Fukunaga, ancor più delle precedenti interpretate da Daniel Craig: cinque volte in tutto in quindici anni, da “Casino Royale” (2006) a “Quantum of Solace” (2008), passando per “Skyfall” (2012) e “Spectre” (2015), fino a “No Time to Die” (2021). Craig si conferma così il Bond più “longevo”, anche se Sean Connery e Roger Moore hanno indossato più volte lo smoking della spia al servizio di Sua Maestà. Con quest’ultimo Bond di Craig si compie una definitiva evoluzione del personaggio creato dallo scrittore Ian Fleming nel 1953: quell’eleganza algida e sfuggente, marcata da ironia ‘so British’, tipica della maggior parte dei Bond, viene sostituita in un primo momento da un habitus molto fisico, un mix muscolare e sensuale, per approdare poi sulle rive del sentimento. Il James Bond di oggi si scopre così permeabile, vulnerabile alle emozioni; e questo afflato sentimentale manda irreparabilmente in frantumi la sua armatura.

Bond alle prese con un virus letale
Si chiudono tutti i fronti aperti nel corso di questi quindici anni, da “Casino Royale”. James Bond (Daniel Craig) ha lasciato definitivamente i Servizi segreti, MI6, ora sotto la guida di Gareth Mallory (Ralph Fiennes). Anche la sua relazione con Madeleine Swann (Léa Seydoux) non riesce a reggere allo strascico di conseguenze generate dalla fine di Spectre, con l’arresto di Blofeld (Christoph Waltz). Rifugiatosi a vita tranquilla in Giamaica Bond viene raggiunto dall’amico della CIA Felix Leiter (Jeffrey Wright) che gli chiede di recuperare uno scienziato russo, Waldo Obruchev (David Dencik), rapito da frange di Spectre in cerca di un letale virus, una nuova minaccia globale. Giocatore inatteso sulla scacchiera è Lyutsifer Safin (Rami Malek), vendicativa figura che affiora dal passato di Madeleine.

Le donne di Bond rompono i confini e si prendono la scena
Primo elemento chiaro di questo Bond “rivoluzionario” è senza dubbio il ruolo femminile. A ben vedere il ciclo di film su 007 con Daniel Craig aveva progressivamente dato uno spazio diverso alle donne, facendole uscire dai confini della “spalla” avvenente verso un ruolo piano piano più centrale (cammino intrapreso da M, capo dei servizi segreti, interpretato in 7 film da Judi Dench). È però in “No Time to Die” che gli argini vanno definitivamente in frantumi e il mondo di Bond si tinge di rosa: a cominciare dall’agente 007 che ha preso il suo posto nei servizi segreti (Nomi, interpretata da Lashana Lynch), trentenne dal piglio risoluto e dalla spiccata femminilità. Lei tiene la scena accanto a Bond, rimarcando bene i suoi spazi, a partire da quel nome in codice che non vuole cedere al suo storico “proprietario”.
C’è poi la psicologa Madeleine Swann, l’attrice francese Léa Seydoux, già conosciuta in “Spectre”, che in questo episodio entra con passo più deciso e irreversibile nella vita di James Bond. Madeleine lo aiuta a curare le ferite lasciate da Vesper Lynd (Eva Green): è lei a guidare James verso un amore più maturo, fuori dai sentieri della passione travolgente, verso un orizzonte che si apre alla tenerezza e ad altre responsabilità.
Senza voler dire troppo del film, possiamo affermare che in 007 si è ormai giunti a piena parità tra uomo e donna, anzi il suo futuro sembra essere sempre più sbilanciato a favore delle donne. Si è arrivati a questa svolta narrativa anche grazie al coinvolgimento nel team di scrittura di Phoebe Waller-Bridge, rivelazione per le serie Tv “Fleabag” e “Killing Eve”. È stata lei probabilmente a cesellare meglio i comprimari femminili del film, mantenendone immutato fascino e avvenenza, ma ritagliando per loro più azione, spazio e rilevanza.

Uno 007 che perde algidità e trova sentimento
Altra grande novità di “No Time to Die” è la trasformazione di James Bond. Craig ha condotto il suo 007 fuori dai sentieri dell’eroe bello, spigoloso e inafferrabile, aprendolo alle sfumature dell’amore e alle pagine brucianti del dolore. Sia chiaro, Bond è sempre Bond, un eroe che si fa giustizia e resiste in maniera granitica alle aggressioni; semplicemente ora è più umano, più permeabile alle emozioni, compresi rimpianti e nostalgia. Inoltre, in questo capitolo arriva a sfiorare un profilo relazionale-umano mai toccato prima: si scopre prossimo alla tenerezza, vulnerabile come mai in passato. E questo ci regala una tensione emozionale verso il personaggio, al punto da attivare quella strana malinconia di cui si parlava all’inizio. Ci si affeziona ancora di più a Bond, perché lo si scopre vicino, non più mitico. Bond è uomo come noi.
Applausi quindi a Daniel Craig, che non ha mai nascosto la sua fatica di portare a compimento questo quinto atto di 007; interprete che ha rivelato statura e mestiere fuori dal comune, riuscendo a ritagliarsi un posto di primo piano nella galleria di ritratti della spia di Sua Maestà. Sean Connery, però, resterà sempre il primo, inimitabile, Bond.

Azione, adrenalina e un finale mozzafiato
Dopo il britannico Sam Mendes, è toccato al regista-sceneggiatore statunitense Cary Fukunaga (classe 1977) firmare il 25° 007. Dall’esperienza cinematografica e televisiva versatile – tra i suoi titoli ci sono l’acclamata serie poliziesca “True Detective” (2014) come pure una nuova versione, meno convenzionale, di “Jane Eyre” (2011) – Fukunaga si è messo alla guida del nuovo Bond rivelando indubbio stile visivo e vigore narrativo. A essere onesti non tutto nel racconto gira nel verso giusto, in primis per qualche scivolata un po’ fracassona o per lungaggini (l’opera si attesta sui 163 minuti), ma il saldo è assolutamente positivo. Il suo Bond possiede tutto: azione, adrenalina, atmosfera rétro, ma anche aperture al nuovo, a quella freschezza narrativa riconducibile già a Mendes.
Punto nodale in quest’ultimo 007 è la commistione convincente, e per certi versi sorprendente, tra la magnetica tensione da thriller spionistico e l’indagine delle pieghe dell’animo del personaggio, quello sguardo introspettivo che approda sulle sponde del sentimento. È proprio tale compenetrazione tra i due livelli di Bond che ammalia e tiene agganciati.
E poi c’è quel finale mozzafiato che piace, e tanto, anzi fa proprio sussultare, del quale non si può (e non si deve) parlare, che vale di certo il biglietto al cinema. E a ben vedere pensiamo che proprio questo atteso ritorno di James Bond possa tradursi in un deciso traino di ritorno in sala con incassi da pre-pandemia. Noi ci scommettiamo, perché questo 007 “No Time to Die” va visto rigorosamente al cinema, “Where it Belongs!” (“là dove appartiene”), come ha detto Daniel Craig alla prima. Dal punto di visita pastorale “No Time to Die” è consigliabile, problematico e per dibattiti.

Articolo disponibile anche sul portale dell’Agenzia SIR

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