I film della Settimana Santa, restando a casa

martedì 7 Aprile 2020
Un articolo di: Massimo Giraldi, Sergio Perugini

Il cinema che racconta la Croce. Le proposte per la Settimana Santa dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali – Commissione nazionale valutazione film CEI

Siamo nella Settimana Santa, a pochi giorni alla Pasqua. Le nostre Chiese rimangono chiuse per l’emergenza Coronavirus, ma si moltiplicano le iniziative della Santa Sede e della Chiesa cattolica italiana per essere il più possibile prossimi, lì ai piedi della Croce, per vivere questo momento di profondo ripensamento e di rinascita. L’arte e i media come sempre ci accompagnano e ci offrono preziose suggestioni. Come Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali – Commissione nazionale valutazione film della CEI abbiamo scelto il cinema come terreno di “provocazione” e di condivisione: ecco di seguito otto racconti sulla Passione, tra visioni cristologiche “classiche” e sguardi parabolici, attualizzazioni, che accostano la vicenda di Cristo alle storie della società odierna.

“Il Vangelo secondo Matteo”
Ne abbiamo parlato a marzo, in occasione della messa in onda di Tv2000. È “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini, una delle opere italiane e internazionali più intense e convincenti sul racconto della vita e della Passione di Cristo, prendendo le mosse proprio dal testo di Matteo. Pasolini giunge a questo film dopo aver avviato una sorta di via Crucis “profana”, laica, raccontando l’umanità disgraziata nelle periferie disperse della Capitale, gli scartati dal boom economico. Al “Vangelo secondo Matteo” (1964) arriviamo dunque attraverso le stazioni di “Accattone” (1961), “Mamma Roma” (1962) e “Ricotta” (1963): tutti film i cui protagonisti sembrano richiamare le sofferenze sulla Croce, fino ad accostarsi appunto a quella di Gesù. Lì Pasolini, nel “Vangelo secondo Matteo”, sembra ricordarci che l’uomo quasi non è in grado di comprendere l’entità del sacrificio di Cristo e il regista friulano rimarca questo mostrando il “nero cinematografico” nel momento più alto della Passione. Come sottolinea, infatti, Dario E. Viganò: “Se il film è sostanzialmente la trasposizione del testo di Matteo, è proprio la regia di Pasolini, l’atto del dire, che conduce a un guadagno di profondità del testo biblico. […] Pasolini ha evidenziato […] che la morte di Gesù, e dunque la sua obbedienza al Padre, il suo amore straordinario per ogni uomo, è talmente centrale nella storia dell’umanità che ad essa non è possibile accedere con lo sguardo: di fronte ad essa abbiamo una sorta di estraniazione perché la morte in croce, luogo della rivelazione della gloria del Padre, esige l’oltrepassamento di uno sguardo che diviene ascolto. Per questo Pasolini, con una scelta registica assolutamente anticinematografica, chiude l’obiettivo e mostra il nero” (D.E. Viganò, D. Iannotta, Essere. Parola. Immagine. Percorsi del cinema biblico, Effatà 2000, p. 122).

“Jesus Christ Superstar”
Dagli anni ’20 agli anni ’60 Hollywood offre numerose occasioni per rileggere la figura di Cristo, con uno stile molto solenne, ma decisamente accomodante: un Gesù non troppo “scomodo”, ridotto a stereotipo narrativo, ben lontano dalla complessità dei racconti evangelici. Negli anni ’70, poi, complice anche il fermento politico e socio-culturale divampato nella società, si registra nel cinema americano un deciso cambio di passo narrativo. Di quella stagione è “Jesus Christ Superstar” (1973), racconto rock della Passione diretto da Norman Jewison e ispirato all’opera di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. Il film affronta la figura di Gesù mettendo in scena gli ultimi sette giorni della sua vita. Al di là della cornice rock, tra le particolarità dell’opera si segnalano anzitutto una rappresentazione densa di colori, influenzata dalla cultura hippy del tempo; la figura di Gesù (Ted Neeley) viene resa in maniera profondamente umana, priva della dimensione miracolosa; non passa inosservata poi l’assenza della figura di Maria, colmata in parte dalla presenza di Maria Maddalena (Yvonne Elliman); infine Giuda (Carl Anderson), proposto non come traditore, bensì come “strumento provvidenziale”, un aiuto per Cristo nel suo cammino verso la Croce. A suo tempo il film è stato accolto tra perplessità ed entusiasmo, oggi “Jesus Christ Superstar” è considerato un classico nelle proposte in ambito pastorale. Nel 1974 la Commissione nazionale valutazione film CEI lo ha definito: “Una tale fisionomia di spettacolo-fantasia-religiosa è esaltante e stimolante, anche per la ricchezza artistica del lavoro; merita perciò una raccomandazione, ma esige, tuttavia, un accostamento avveduto e cosciente. Raccomandabile/difficile” (“Segnalazioni cinematografiche”, Vol. 76, 1974).

“I giardini dell’Eden”
Quasi contemporaneamente alla messa in onda della miniserie televisiva Rai-Lux Vide “Jesus” (1999) – titolo del “Progetto Bibbia” negli anni ’90 – al cinema arriva “I giardini dell’Eden” (1998) di Alessandro D’Alatri, originale e ricercato racconto sugli anni non documentati della vita di Gesù, quelli relativi al suo cammino di formazione. La sceneggiatura è scritta da D’Alatri insieme allo scrittore ebreo Miro Silvera, raccogliendo le suggestioni di Enzo Bianchi della Comunità di Bose. L’opera propone la storia del giovane Jeoshua (Kim Rossi Stuart) nel passaggio dall’adolescenza, dal momento del Bar Mitzvah, all’età adulta, sino all’arresto del Battista. La Commissione nazionale valutazione film nel 1998 ha valutato così il film: “Racconta una verità essenziale per la fede cristiana: l’umanità di Gesù, che non è affatto scontata. Il regista D’Alatri racconta un Gesù che, accanto al padre e alla madre, impara a pregare, apprende la storia del suo popolo, forma a poco a poco le proprie capacità di giudizio sulle vicende alle quali partecipa. […] Una voglia sincera di ricostruire un’immagine di Gesù non diversa o stravolta ma in grado di parlare all’uomo distratto e spesso confuso di fine Millennio. Per tutti questo motivi il film, di taglio problematico, è da valutare come raccomandabile” (“Segnalazioni cinematografiche”, n. 126, 1998, pp. 117-119).

“La Passione di Cristo”
Altro snodo significativo nella storia del cinema cristologico – seppure al centro di un ampio dibattito e di non poca perplessità per lo stile narrativo – è senza dubbio “La Passione di Cristo” (“The Passion of the Christ”, 2004) di Mel Gibson. Il regista ispirandosi ai Vangeli e alle visioni della beata Anna Katharina Emmerick, nonché recuperando alcune intuizioni visive di Pasolini, racconta nel film le ultime dodici ore della vita di Gesù (James Caviezel), dalla cattura nell’orto degli ulivi alla salita del Golgota. Nel mettere in scena la dolorosa Via Crucis, il regista intervallata la narrazione con brevi flashback che richiamano dei momenti della vita di Gesù, dall’infanzia segnata dal legame con la madre Maria (Maia Morgenstern) alla vita adulta, insieme ai discepoli. Influenzato dalla pittura nordeuropea (Matthias Grünewald e Albrecht Dürer), Gibson propone una nuova rappresentazione della Passione di Cristo con uno stile visivo molto duro, fosco, esplicito nella visualizzazione della violenza e della sofferenza, ricorrendo a un linguaggio cinematografico contemporaneo, quasi senza filtri.

“Risen”
Nel 2017 Hollywood torna a rileggere la vicenda di Gesù a partire dalla sua morte, ovvero dal momento successivo, raccontando lo smarrimento dei suoi discepoli e soprattutto lo sguardo di un non credente. Parliamo di “Risen” (“Risorto”) di Kevin Reynolds, che propone la storia del tribuno militare Clavio (Joseph Fiennes), chiamato a sorvegliare il Sepolcro e a impedire ai discepoli di Cristo di recuperarne il corpo. Clavio scopre però che il sepolcro è vuoto e ciò genera una falla nelle sue certezze, nel suo stile distaccato dalle cose della vita. Inizia un cammino di riflessione, che lo predispone all’incontro, al cambiamento. Reynolds ci consegna una prospettiva abbastanza originale, soffermandosi ad approfondire le reazione della comunità del tempo alla morte di Cristo. “Risen” si snoda tra ragione e irrazionalità “come un ‘thriller’ da risolvere. […] Le scene d’azione sono efficaci e non superano mai la soglia del facile ammaestramento. È evidente che il recupero di una dimensione semplice, mai enigmatica o ambigua è ciò che chiede la traduzione in immagini della storia della Resurrezione oggi. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti” (Scheda pastorale di “Risen” sul sito Cnvf.it).

“Maria Maddalena”
Tra le ultime proposte sempre da Hollywood c’è “Maria Maddalena” (2018) di Garth Davis con Joaquin Phoenix e Rooney Mara, film che ci racconta Gesù attraverso la figura di una persona prossima a lui e ai discepoli, appunto Maria Maddalena. La giovane donna salvata da Gesù si fa testimone del suo cammino e del suo atto d’amore per l’umanità, il suo lasciarsi morire in Croce. Con una messa in scena sontuosa e di taglio spettacolare, l’opera rischia di rientrare nel filone accomodante della Hollywood classica, più interessata a suggestionare lo sguardo che ad approfondire la Storia e i suoi protagonisti. Scrive così la Commissione nazionale valutazione film CEI nel 2018: “Il copione sceglie la via più facile per accostarsi alla Croce […] rischiando di perdere di vista la profondità della vicenda, la problematicità e la ricchezza della storia narrata. Il miracolo di Lazzaro, la crocifissione, la Resurrezione sono momenti che restituiscono certo i fatti di duemila anni fa, misteriosi e impenetrabili ma non trasmettono inquietudine, non sconvolgono e non lasciano in attesa della venuta del ‘Regno’ […] per fare un buon film bisogna conoscere molto bene la materia che si intende trattare. Non piegarla alle esigenze dello spettacolo” (Scheda pastorale di “Maria Maddalena” sul sito Cnvf.it).

“Gran Torino”
Come ricorda sempre mons. Dario E. Viganò, le moderne “figurae Christi” sono storie o meglio personaggi che in tempi e contesti differenti da quelli nei quali Gesù è vissuto assumono tratti dell’esperienza di Cristo. Una delle storie più sorprendenti del nuovo Millennio, che meglio si accosta alla formula del racconto parabolico, è di certo “Gran Torino” (2009) di Clint Eastwood, ovvero il cammino di conversione e testimonianza di un anziano reduce di guerra nell’America contemporanea. Walt Kowalski (Eastwood) si abbandona al sacrifico per il bene del prossimo, ovvero quello del giovane vicino di casa Thao (Bee Vang) e della sua famiglia di immigrati di etnia Hmong, presi di mira da una banda di quartiere. Kowalski si appella a Maria e si erge sul Golgota nella stanca e affaticata periferia americana; lì si carica sulle sue spalle i dolori e la rabbia della povera gente, smorzando ogni forma di violenza e di vendetta. Kowalski diventa un pacificatore della comunità, regalando all’adolescente Thao – emblema delle nuove generazioni – un sogno di pace e speranza per il domani.

“Due giorni, una notte”
È forse uno dei film più belli dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne “Due giorni, una notte” (“Deux jours, une nuit”, 2014), perché possiede sì quella consueta carica di denuncia sociale – tratto tipico del cinema dei Dardenne – ma riesce anche ad accendere la fiamma della speranza, la fiducia in un riscatto possibile. Il film può essere ricollegato al filone parabolico perché sembra mettere in scena le stazioni della Croce dell’umanità oggi, quella povera che combatte per la dignità del posto di lavoro, come più volte ci ricorda papa Francesco. In “Due giorni, una notte” assistiamo pertanto alla via Crucis dell’operaia Sandra (una Marion Cotillard di inarrivabile bravura), che appena rientrata sul posto di lavoro dopo una malattia invalidante si vede mettere alla porta, licenziata, perché ritenuta improduttiva. Il suo capo, infatti, ha illuso i colleghi di Sandra con un bonus in busta paga: o Sandra nel team di lavoro oppure un po’ di soldi in più a fine mese. Seppur umiliata e rifiutata, Sandra decide di mettersi comunque in gioco, in cammino, facendo il possibile per far cambiare idea ai propri colleghi. Compie così una processione laica, una via Crucis, piegata dal peso dell’angoscia e della paura; arriva persino a sognare la morte, la fine di tutto quel dolore, ma grazie all’amore della sua famiglia rimane in vita. Sandra riesce a scendere dalla Croce, a (ri)trovare le tracce della Grazia nella sua esistenza, nonostante tutto.

Articolo disponibile sul sito “Chi ci separerà?” della CEI

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