Venezia76: decimo giorno alla Mostra. In concorso “La mafia non è più quella di una volta” di Maresco e “Waiting for the Barbarians” di Guerra. Fuori gara “Tutto il mio folle amore” di Salvatores

76a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, decimo e ultimo giorno di gara.

sabato 7 Settembre 2019
Un articolo di: Sir - Cnvf

Venerdì 6 settembre sono stati presentati gli ultimi due titoli: l’italiano Franco Maresco con il documentario di inchiesta “La mafia non è più quella di una volta” e il colombiano Ciro Guerra con “Waiting for the Barbarians”, tratto dal romanzo di M. Coetzee. Al Lido è anche il giorno di Gabriele Salvatores che presenta fuori competizione “Tutto il mio folle amore”, ispirato alla storia vera di Andrea e Franco Antonello. Il punto sulle proiezioni con il Sir e la Commissione nazionale valutazione film (Cnvf) della Cei.

“La mafia non è più quella di una volta”
Palermitano del 1958, Franco Maresco si è affermato come regista insieme al collega Daniele Ciprì dalla metà degli anni ’90 con un stile graffiante e sarcastico. Arriva a Venezia 76 con un documentario da lui scritto e diretto “La mafia non è più quella di una volta”, indagine sull’ingombrante presenza della mafia nella vita sociale del Paese, cogliendo l’occasione dei 25 anni nel 2017 dell’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
“Maresco torna alle stragi di Capaci e di via D’Amelio” – sottolinea Massimo Giraldi, presidente della Cnvf e membro della giuria cattolica Signis al Festival – “accostando il personaggio vero di Letizia Battaglia, fotografa di successo oggi ottantenne, a quello di finzione di Ciccio Mira, già comparso in un precedente film del 2014; il regista immagina che Mira organizzi una festa di piazza alla quale invita una serie di artisti del filone neomelodico. Per quanto però si sforzi di apparire originale, Maresco non riesce a staccarsi da un racconto di poca vivacità; il copione si muove infatti intorno ad alcuni cliché narrativi già visti in passato: domina una galleria di personaggi evanescente e irritante, sempre al limite dell’assurdo, che si lega ai mostri umani e antropologici tanto cara a Maresco sin dalla collaborazione con Ciprì. Nel complesso, si ha l’impressione che la scrittura del film sia sfuggita di mano al regista e che l’umorismo nero si sia chiuso in un vicolo cieco”.
Dal punto di vista pastorale il film è complesso e problematico.

“Waiting for the Barbarians”
Nato nel 1981 in Colombia, il regista Ciro Guerra ha trovato grande popolarità nel 2018 con “Oro verde”, film che ha inaugurato la Quinzaine des Réalisateurs a Cannes. A Venezia 76 si presenta in concorso con il suo primo film in lingua inglese, “Waiting for the Barbarians”, un debutto a tutti gli effetti nel cinema hollywoodiano – a produrre però è l’italiano Andrea Iervolino – con nel cast Mark Rylance, Johnny Depp e Robert Pattinson. Prendendo le mosse dal romanzo del premio Nobel John M. Coetzee, il film racconta di un avamposto di frontiera nel deserto. La cittadella è governata da un magistrato (Rylance) saggio e pacifico; l’arrivo improvviso del colonnello Joll (Depp), dai mezzi duri e irreprensibili, turba l’equilibrio della fortezza. È l’inizio di una caccia alle streghe verso gli stranieri.
“Imponente è la messa in scena del film di Guerra” – indica Sergio Perugini, segretario della Cnvf e membro della giuria Signis – “In verità è una storia ‘piccola’, densa e universale, centrata sul senso di accoglienza e rispetto. Si guarda oltre confine con sospetto, con astio, rapportandosi all’‘altro’ non con desiderio di ascolto e comprensione, ma ricorrendo a una violenza feroce e gratuita. Nel film ci si domanda quando arrivino i barbari, in verità i barbari sono già all’interno della fortezza, impersonati dal colonnello Joll e dai suoi ufficiali provenienti dal cuore dello Stato con arroganza e spregiudicatezza. È certamente valido il racconto, che poggia su una regia robusta; la narrazione in alcuni passaggi appare forse segnata da lungaggini e momenti di stasi. Significativo è il personaggio del magistrato interpretato da Rylance, l’unico in grado di mostrare autentica umanità e misericordia”.
Dal punto di vista pastorale il film è complesso, problematico e per dibattiti, con attenzione ai minori per le scene di violenza.

“Tutto il mio folle amore”
Napoletano classe 1950, Gabriele Salvatores è un regista che non ha bisogno di presentazioni: si ricordano i circa venti film all’attivo e l’Oscar per il miglior film straniero nel 1992 con “Mediterraneo”. A Venezia 76 presenta fuori competizione la commedia a tinte drammatiche “Tutto il mio folle amore”, dal romanzo di Fulvio Ervas che racconta la storia vera di Andrea e Franco Antonello. È l’incontro tra un padre e un figlio sedicenne, quest’ultimo con sindrome di autismo; un ritrovarsi insieme voluto e respinto, che apre fortuitamente a un viaggio on the road tra Nord d’Italia, Slovenia e Croazia. Il film si avvale di un cast prestigioso e bene in parte: Claudio Santamaria, Valeria Golino, Diego Abatantuono e il debuttante Giulio Pranno.
“Siamo in una zona geografica poco battuta dal cinema italiano” – afferma Massimo Giraldi – “che consente una pluralità di incontri all’insegna dell’imprevisto e delle sorprese. Il cuore del film risiede però nel lento ma costante recupero del rapporto tra padre e figlio, che Salvatores gestisce con grande maestria e sensibilità. Il regista adotta uno stile agile e svolazzante, non per questo smarrendo profondità; anzi, l’opera offre materia consistente su cui riflettere in ambito familiare ed educativo, dando grande fiato a importanti valori come comprensione, tenerezza, perdono e reciproco sostegno”.
“Si parte con il sorriso e si giunge alla commozione nel film di Salvatores” – rimarca Sergio Perugini – “un dialogo intermittente tra padre e figlio desiderosi di conoscersi, ritrovarsi, amarsi. Il tema dell’autismo è affrontato con delicatezza e rispetto, tanto nella prospettiva dei genitori, con tutti gli affanni, quanto dei figli, rifuggendo da rischiosi pietismi. Un on the road movie rocambolesco a tratti inverosimile sino ai confini della fiaba, che trova le pagine più intense e poetiche grazie alle interpretazioni degli attori: Claudio Santamaria tratteggia un padre vigoroso e tenero insieme, che conquista con simpatia e autentica emozione”.
Dal punto di vista pastorale, il film è consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

Articolo originale pubblicato su Agenzia SIR


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