Il colibrì

Valutazione
Complesso, Problematico, Adatto per dibattiti
Tematica
Adolescenza, Amicizia, Amore-Sentimenti, Anziani, Dolore, Eutanasia, Famiglia, Famiglia - fratelli sorelle, Famiglia - genitori figli, Malattia, Matrimonio - coppia, Morte
Genere
Drammatico
Regia
Francesca Archibugi
Durata
126'
Anno di uscita
2022
Nazionalità
Italia/Francia
Titolo Originale
Il colibrì
Distribuzione
01 Distribution
Soggetto e Sceneggiatura
Sandro Veronesi, Francesca Archibugi, Francesco Piccolo, Laura Paolucci
Fotografia
Luca Bigazzi
Musiche
Battista Lena
Montaggio
Esmeralda Calabria
Produzione
Fandango con Rai Cinema, Les Films des Tournelles, Orange Studio

Film di apertura della 17a Festa del Cinema di Roma, presentato al Toronto Film Festival 2022

Interpreti e ruoli

Pierfrancesco Favino (Marco Carrera), Kasia Smutniak (Marina Molitor), Nanni Moretti (Carradori), Fotinì Peluso (Irene), Benedetta Porcaroli (Adele), Berenice Bejo (Luisa Lattes), Massimo Ceccherini (Duccio), Laura Morante (La mamma di Marco), Sergio Albelli (Il padre di Marco), Alessandro Tedeschi (Giacomo), Pietro Ragusa (Luigi Dami Tamburini)

Soggetto

Marco Carrera è detto da tutti "il Colibrì" per il suo sforzarsi nel rimanere sempre fedele a se stesso, fermo nel suo spazio. In un arco temporale dagli anni ’70 a oggi, tra Firenze, Roma e Parigi, si snoda tutta la sua esistenza. A fare da spartiacque nel tragitto del suo vivere sono diversi lutti, a cominciare dal suicidio della sorella Irene poco più che ventenne.

Valutazione Pastorale

Passato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival, nella sezione Gala, "Il Colibrì" ha aperto la 17a Festa del Cinema di Roma. Diretto da Francesca Archibugi, che ne firma anche la sceneggiatura con Laura Paolucci e Francesco Piccolo, il film è tratto dell’omonimo romanzo di Sandro Veronesi. Un’opera intensa, problematica, dove la morte occupa un posto da comprimario. Un racconto dolente, che la regia della Archibugi governa con diffusa eleganza. La storia. Marco Carrera (Pierfrancesco Favino) è detto da tutti "il Colibrì", per il suo sforzarsi nel rimanere sempre fedele a se stesso, fermo nel suo spazio. In un arco temporale dagli anni ’70 a oggi, tra Firenze, Roma e Parigi, si snoda tutta la sua esistenza. A fare da spartiacque nel tragitto del suo vivere sono diversi lutti, a cominciare dal suicidio della sorella Irene (Fotinì Peluso) poco più che ventenne. Accanto al presagio di morte che lo tallona, c’è comunque l’amore: quello giovanile per Luisa Lattes (Bérénice Bejo), per la moglie Marina (Kasia Smutniak) e infine per la figlia Adele (Benedetta Porcaroli). Non è facile addentrarsi nelle pieghe di un’opera così stratificata come “Il Colibrì”. Per chi ha letto il romanzo di Veronesi, il tracciato è noto. Anzitutto è bene partire dalla regia della Archibugi. L’autrice romana, che ha esordito nel 1988 con “Mignon è partita”, con più di venti titoli all’attivo tra cinema e Tv, qui mette in campo uno sguardo maturo, solido, marcato da grande raffinatezza. Il suo modo di dirigere trova un passo fluido e avvolgente, un osservare la realtà e le sue fratture con una cifra dolente ed elegante insieme. Come racconta l’autrice, la sua sfida è stata “annullare la macchina da presa, riuscire a creare la percezione che la storia si stesse raccontando da sé”. “Non è un esercizio di regia facile – aggiunge – A volte la cosa più difficile da inquadrare è il viso di un uomo, di una donna, di ragazzi e bambini. Far capire i sottotesti. E filmare l’invisibile”. In questo, la Archibugi è riuscita perfettamente nell’impresa, governando una narrazione che corre sul binario del flusso scomposto dei ricordi, pezzi di un puzzle esistenziale che trovano ordine in maniera episodica e casuale. Non c’è però confusione nel racconto, al contrario si assiste con crescente attenzione alle svolte nella vita di Marco Carrera. A ben vedere, però, a non girare altrettanto bene è l’impianto del racconto, che in alcuni raccordi scivola in uno stentato realismo (tra dialoghi e trucco), tanto da disperdere pathos e raffreddare il sentimento di compassione, del “soffrire con”. “Il Colibrì” è un’opera puntellata dal dolore, da cui il personaggio non riesce mai del tutto a liberarsi; un dolore per il senso della precarietà della vita, per quelle perdite che generano cicatrici nell’anima; un uomo che ama, che si mette in gioco, ma che deve sempre fare i conti con un destino inclemente e beffardo, capace di travolgerlo. Nel racconto, poi, torna sistematicamente il tema del suicidio, dell’abbracciare la morte per scelta. Un argomento insidioso e scivoloso, che la Archibugi gestisce con prudenza e delicatezza, senza però poterne disinnescare la carica di problematicità. Il tema è, infatti, altamente divisivo, bruciante, difficile da accogliere a livello valoriale. Nell’insieme “Il Colibrì” accompagna lo spettatore in una vertigine esistenziale tragica, dove però la carica emotiva non sempre regge il passo dell’azione. Gli interpreti corroborano la narrazione con performance misurate e ricche di sfumature, in primis Favino, sempre inappuntabile, e in alcuni passaggi superlativo, come pure i comprimari: Kasia Smutniak, Bérénice Bejo, Laura Morante, Nanni Moretti, Fotinì Peluso, Benedetta Porcaroli, Francesco Centorame. Un’opera corale che si distingue anche per la fotografia di Luca Bigazzi e per le scenografie di Alessandro Vannucci. Indicato per un pubblico adulto, il film “Il Colibrì” è complesso, problematico, adatto per dibattiti.

Utilizzazione

Il film è da utilizzare in programmazione ordinaria. Data la delicatezza dei temi in campo è bene proporre la visione a un pubblico adulto/maturo.

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