PERCHÈ BODHI DHARMA È PARTITO PER L’ORIENTE? **

Valutazione
Accettabile, Complesso, Dibattiti
Tematica
Genere
Apologo
Regia
Yong-Kyun Bae
Durata
130'
Anno di uscita
1991
Nazionalità
Corea
Titolo Originale
WHY HAS BODHI DHARMA LEFT FOR THE ORIENT?
Distribuzione
Mikado Film
Soggetto e Sceneggiatura
Yong
Musiche
Kyn
Montaggio
Yong

Sogg. e Scenegg.: Yong-Kyun Bae - Fotogr.: (panoramica/a colori) Yong-Kyun Bae - Mus.: Kyn-Yong Onin - Montagg.: Yong-Kyun Bae - Dur.: 130' - Produz.: Yong-Kyun Bae

Interpreti e ruoli

Pan Yong (Hyegok), Won-Sop Sin (Kibong), Hae-Jin Huang (Haejin), Su-Myong Ko, Hae-Yong Kim

Soggetto

in un piccolo eremo semidiroccato fra le montagne della Corea vive in rigorosa ascesi un anziano maestro zen insieme a due discepoli, il giovane Kibong e il piccolo Haejin, un orfano di cinque anni. Un giorno Haejin, giocando fra gli alberi con la fionda, colpisce involontariamente un uccello che sta covando, e ne distrugge il nido, fra le strida del compagno rimasto indenne. È il primo impatto di Haejin con la morte. Il bambino compie infatti inutilmente ogni tentativo per curare l'uccello ferito, che muore nella notte. Haejin lo sotterra l'indomani - vincendo il ribrezzo per la putrefazione - osservato e come sgridato dalle strida dell'uccello rimasto solo, che dal quel momento lo seguirà ovunque. Altra esperienza penosa per il bambino è quella della sofferenza fisica, quando dal maestro gli viene estratto in modo rudimentale un dente cariato; quella del dolore quando chiede al maestro se nel mondo tutti siano orfani come lui; e dello smarrimento pieno di paure quando gli accade una volta di trovarsi tutto solo nella notte, con l'unica compagnia di un giovane altrettanto sperduto. La vita del bambino si svolge a contatto della natura dei suoi ritmi e dei suoi elementi: l'acqua, la vegetazione, il sole, il vento e la pioggia, il fuoco, i giomi, le notti e le stagioni, i rischi, le insidie e le ostilità del quotidiano, abbandonato a se stesso, senza una figura di madre o di donna che vegli su di lui. La curiosità caratteristica dell'infanzia lo porta ad osservare, ascoltare e sperimentare ogni cosa: così non perde nulla delle istruzioni e dei suggerimenti che il maestro va impartendo al giovane Kibong per la sua iniziazione, partecipandovi indirettamente. Il tema fondamentale del maestro è quello della circolarità dell'esistenza, che non ha inizio né fine, e quello dell' "illuminazione", un'esperienza profonda che consente al contemplativo di capire ogni cosa e di giungere alla liberazione. Sentendo prossima la fine, egli affida a Kibong il compito di provvedere alle sue esequie. Prima, però il giovane monaco vuol recarsi in città per acquistargli delle medicine col ricavato di un'umile questua fra la gente. Ha modo così di confrontare l'esistenza rumorosa e consumistica di quel mondo con quella del suo, silenziosa, austera e meditativa. Morto il maestro, Kibong ne celebra di notte il rito della cremazione, osservato di soppiatto da Haejin, e ne disperde le ceneri all'intorno, poi sale all'alba su una vetta scoscesa incontro al sole, per inoltrarsi infine, all'imbrunire, nel folto della selva, dove scompare, dopo aver affidato al bambino gli indumenti del maestro. Rimasto solo, il piccolo Haejin torna fortunosamente all'eremo e brucia gli indumenti del maestro. Rimangono solo sulla soglia le bianche calzature di lui, rivolte verso l'ingresso. Haejin le inverte verso l'uscita, rientra e chiude la porta. L'uccello superstite spicca il volo e si libra alto nel cielo.

Valutazione Pastorale

questo film, denso com'è di simbolismi non sempre decifrabili, andrebbe letto riferendosi al contesto culturale di provenienza e alla filosofia zen cui ispira, perché diventi possibile superare l'impressione di sciarada, fra l'emblematico e l'enigmatico, che può dare a tutta prima con i suoi ritmi lentissimi, i silenzi, i brusii, i dialoghi scarni, i rari suoni, le musiche esotiche, la recitazione concentrata ed assorta dei protagonisti. In realtà il regista riesce ad esprimere l'interrogativo universale di fondo dell'umanità intera, da qualunque cultura provenga, circa il senso della vita, i misteriosi perché di tanti contrasti e di tanto dolore che l'attraversa: il male, la sofferenza, le tenebre, la caducità di ogni essere, la morte. E insieme la volontà di riflessione, ricerca instancabile, tensione alla liberazione che anima i protagonisti. Certo la filosofia zen che pervade il film esprime una visione terrena della vita e del cosmo, accentuata da una specie di tropismo che dovrebbe placare tali interrogativi, dissolvendoli nel "tutto" di una natura in continuo divenire, non senza tuttavia un anelito alla liberazione e alla trascendenza, espressa nel volo finale verso l'alto dell'uccello rimasto privo del compagno. Nel film l'inquietudine e il dubbio inducono l'uomo pensoso di sè e del proprio destino alla meditazione e alla ricerca costante, attraverso la rinuncia, l'ascesi e il progressivo spogliarsi di ogni superfluità per raggiungere quella misteriosa "illuminazione" da cui gli verrà ogni risposta. E questi sono già valori sempre meno presenti all'interno della nostra cultura occidentale frenetica e in sostanza superficiale. Rimane piuttosto l'enigma dei simboli. Perché, ad esempio, dopo il rogo funebre del maestro, dopo quella profusione di fuoco nella notte e quell'abbagliante gloria di sole e di luce nel mattino il giovane monaco Kibong se ne va, come dissolvendosi nella foschia dell'imbrunire, inseguito dall'urlo interrogativo del piccolo Haejin preso dal panico: "Dove vai, fratello?". Ha rinunciato alla ricerca e all'ascesi, o si immerge placato nel mistero della vita, accettandola serenamente com'è, sull'esempio del Maestro? E perché dopo il travagliatissimo ritorno all'eremo, il piccolo Haejin entra, chiudendosene alle spalle la porta, ma dopo aver rivolto le bianche calzature del maestro all'infuori? verso l'esterno, la vita, la realtà? O per riprendere daccapo l'ascesi contemplativa del maestro, ad essere poi in grado di affrontare adeguatamente il mistero che la vita comporta? L'interrogativo zen rimane: procederà sulle orme del maestro? o rifiuterà quel passato inappagante e senza uscita? Tale simbolismo, spesso enigmatico, attraversa comunque l'intero film, appena attenuato dall'accenno fugace del volo finale verso l'alto dell'uccello superstite, anelito a una qualche forma di trascendenza che vada al di là delle precarie e vaghe risposte della filosofia zen. I protagonisti presentano, è vero, per lo più volti pensosi e distesi, - ad eccezione del pianto di Haejin durante la lunga sequenza emblematica nell'acqua, circondato da ragazzini che giocano ad affogarlo - mai però volti ridenti, neppure quello del bambino, al quale l'austera ascesi zen, dopo che la vita l'ha privato della madre, nega pure la beata smemoratezza dell'infanzia. E nessuna donna nel film, tranne un paio di fugaci apparizioni, poste quasi a indicare possibili tentazioni. Molta umanità, attenzioni e premure reciproche, ma nessuna concessione alla dolcezza e alla tenerezza, che renderebbero meno dura l'esistenza. È, tuttavia un film insolito e pregevole, valido per i valori universali che presenta: il rispetto della natura e delle persone, la solidarietà, la riflessione, la concentrazione, il silenzio, la sobrietà, l'ascesi, la perseveranza nel cercare, l'inappagamento, l'anelito all'interiore liberazione. Stupenda la fotografia, colta dal regista onnipresente con animo di poeta, e ammirabile la regia, sempre condotta con mano d'artista.

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