Sogg. e Scenegg.: Otar loseliani - Fotogr.: Panoramica/a colori Robert Alazraki - Mus.: Nicolas Zourabicmvili - Montagg.: Otar Ioseliani - Dur.: 106' - CoProduz.: Les Films du triangle, La Sept, Paris - Direkt Film, Munchen
Interpreti e ruoli
Sigalon Sagna (Badinia), Saly Badji (Okonoro), Binta Cisse (Mzezvé), Marie-Cristine Dieme (Lazra), Fatou Seydii (Kotoko), Alpha Sane (Bouloude), Souleimane Sagna (Soutoura)
Soggetto
in un villaggio di capanne nel Senegal la vita si svolge piuttosto calma nel rispetto di leggi ambientali e di riti tribali. Sembra imperare con forza il matriarcato. A volte si invoca la pioggia e a volte il Vecchio dio - un idoletto di legno - la manda per la gioia di tutti. Matrimoni e ripudi vengono operati secondo formule antichissime. La disintegrazione arriva con i primi camion dei bianchi, guidati dai neri, poiché non lontano si abbattono alberi giganteschi e ultracentenari, per aprire strade che finiscono con il creare deserti rossastri e praticamente senza vita. Lentamente il villaggio muore, molti vanno in città come salariati o modesti artigiani, trasformati da semplici e liberi in fantocci rivestiti chiassosamente, ma patetici, destinati a vendere paccottiglia e giornali sui marciapiedi. Poi il villaggio viene dato alle fiamme ed un gruppo di turisti accampati nei paraggi vede da lontano l'incendio di quel lembo di foresta rigogliosa. Solo una coppia di giovani e i tre bambini tornano in quel sito diventato squallido, per ricostruirvi la loro capanna bruciata. Con nessuna speranza per l'avvenire.
Valutazione Pastorale
di per sé una favola, un apologo: senza oscurità di sorta e nulla di men che decifrabile, di stampo documentaristico, un pò incerto fra l'antropologia e l'etnografia e precise ambizioni sotto il profilo ecologico nonché qualche intento moralistico. Joseliani si lascia andare a descrizioni su riti e magie (le invocazioni alla pioggia, perfino la ricucitura della testa fatta dalle donne ad un decapitato) e su aspetti realistici e semplici della vita quotidiana tra alberi di mango e caccia alle gazzelle, per attingere però nell'ultima parte allo spessore avvertibile di una denuncia senza strepiti, ma innegabile e senz'altro amara. Tutto è centrato sull'incessante andinvieni di quei camion recanti alberi che facevano foreste e sulla fine graduale, ma inesorabile, di un costume, di una comunità e di leggi antichissime. Uomini e donne fin qui liberi - anche se troppo facile e gratuito sarebbe definirli felici - perdono lo smalto vitale della vita, non si affidano più per essa al fascino misterioso del magico e riducono il senso della sacralità loro trasmesso dagli antenati nella riproduzione in serie di idoletti di legno: miserevole, banalissimo artigianato. Lo stile cinematografico, la stessa tecnica di ripresa sono dimessi, forse volutamente poveri e quasi antiquati. Alcune notazioni puntano tuttavia e altrettanto intenzionalmente sul surreale (la già citata scena di magia), con risultati efficaci. La denuncia non assurge mai ai toni della lamentazione e della recriminazione. La caduta degli dei, la disperazione della tribù, lo squallore della radura sabbiosa ed arida che ha preso il posto del vecchio villaggio, ricordato ormai solo da alcuni tronchi segati alla base e di aspetto cementizio, questo senso di morte crudele e inevitabile fa da contraltare al cicaleccio della donne, ai bambini, ai canti e alla vita di un tempo. L'incendio sarà visto da lontano attraverso i binocoli di un gruppo di campeggiatori bianchi, di passaggio e praticamente indifferenti a tutto ciò che è andato perduto e non solo sul piano ecologico. Malgrado la semplicità apparente e quel tanto di retorico che fatalmente inquina sempre atmosfere ed eventi del genere, il film appare interessante, ha un suo fascino e induce a pensare.